Caparezza, la recensione del concerto al Rock In Roma | Rolling Stone Italia
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Caparezza e la prigione imprevista

Nonostante il nubifragio abbattutosi sul Rock In Roma, il concerto del rapper continua a essere una liberazione.

All’ippodromo delle Capannelle, come a ogni concerto di Michele Salvemini che si rispetti, un’ora prima dell’inizio c’è già un folto gruppo di bambini realisti – accompagnati da adulti sognatori – che attende il suo prigioniero di riferimento, Caparezza. Vengono in massa perché nessuno sa dire cose tanto diverse, a persone così dissimili, con lo stesso linguaggio. Di questi tempi, è anche un po’ una questione di economia domestica.

Il fatto che su Roma e, in particolare su Roma in Rock, si stia per abbattere una piccola media bufera, non sembra preoccuparli minimamente. Certo, guardando il cielo, chi può prendere qualche precauzione, la prende. I più piccini, essendo realisti, si fanno comprare in quantità industriale le magliette del tour, tutto 2-3 taglie più grandi: del resto, non hanno alcuna intenzione né di tornare a casa zuppi, né di smettere di venire ai concerti dell’unico cantante che parla come i loro genitori quando non sono arrabbiati, né feriti, né stressati.

Alle nove e tre quarti la pioggia ha già trasformato l’ippodromo in un piccolo sistema di paludi, intervallate ogni tanto da una lingua di terra, o da un bagno Sebach che decide di realizzare finalmente velleità da natante. Eppure, tutti avanzano determinati verso il palco. Le signorine immagine Vigorsol, vuoi per buon auspicio, vuoi per non rovinare una partita di gomme dal gusto inimitabile, consegnano a tutti un campioncino di Air Action. Male che vada, pensano i più coraggiosi, che raggiungono l’area palco in tempo per l’apertura degli Eugenio in via Gioia, torneremo a casa con la polmonite, ma con l’alito fresco.

Mentre gli alberi cominciano a ondeggiare ancora più pericolosamente, e le paludi assumono proporzioni fantozziane, la riflessione si spinge fino a considerazioni più generali sulla vita. È sempre piacevole quando una marca di chewing-gum sponsorizza i baci di un concerto. È un product placement eccezionale, come apporre un marchio all’ottimismo. Un po’ come quando le signorine immagine ti regalano dei condom, ma con meno ottimismo.

Tutte queste persone, venendo qui la sera del 16 luglio 2018 (data per tempestosa anche dai migliori servizi meteo aeronautici), hanno fatto una scommessa sul cavallo vincente: Caparezza. E gli sono anche state d’ispirazione.

Infatti, nei 23 brani e nelle altrettante pièce di teatrodanza che compongono il tour di Prisoner 709, Caparezza ha immaginato di fuggire da ogni tipo di gabbia e di costrizione: la camionetta della polizia, la ruota del criceto, la teca in cui era riposto il vecchio San Michele di sua nonna, la prigione mentale in cui l’acufene lo rinchiude. Una matrioska di scatole e celle, un pezzo di bravura da escapologo. L’unica prigione che Caparezza non aveva del tutto previsto, è quella delle Capannelle allagate dalla pioggia. La quale pioggia, a un certo punto, arriva per davvero: torrenziale, estiva, ma neanche tanto calda.

Sembra di trovarsi improvvisamente in quel vecchio cartone Disney con la banda che suona nella tempesta. C’è chi corre verso un riparo più a misura di equino che di umano, seguendo l’odore di stallatico: non sarà il massimo, ma almeno, nel buio, c’è una pista da seguire. C’è chi si chiude direttamente in un bagno chimico, in attesa di tempi migliori. Quelli che rifuggono queste forme di privé, vanno semplicemente sotto i grandi cappelli di foglie dei pini marittimi della via Appia, continuano ad ascoltare e capiscono meglio una serie di cose.

Anche Caparezza è un pino, fisicamente e moralmente. Proprio come gli alberi di Capannelle, ha qualche acciacco e non lo nasconde. Ma per liberare i suoi fan da tutte le forme di reclusione, sia fisica che mentale, non ha bisogno di altro ombrello se non quello fornito dalla sua testa. Quando lo vedi in cima alla sua mega-scopa, chissà quanti metri sopra il livello dell’acquitrino, sai che sta dicendo la verità quando urla: “Ti fa sta stare bene”.

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