Black Keys e "Turn Blue": le prime impressioni | Rolling Stone Italia
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Black Keys e “Turn Blue”: le prime impressioni

Il nuovo disco di Auerbach e Carney esce il 13 maggio: il nostro David Fricke, fra i primi ad ascoltarlo, ci racconta l'album della svolta del duo rock-blues

Black Keys Danny Clinch Turn Blue

Black Keys Danny Clinch Turn Blue

Black Keys Danny Clinch

The Black Keys

Turn Blue
(Nonesuch)

Di David Fricke

Turn Blue, l’ottavo album dei Black Keys, si apre con sette minuti che crescono e crescono pian piano con eccentrica furia. Weight of Love è il genere di baraonda che tante altre band conserverebbero per una grandiosa uscita di scena. Ma i Black Keys – il cantante-chitarrista Dan Auerbach col batterista Patrick Carney – e il loro co-produttore Brian Burton, alias Danger Mouse, mostrano la loro faccia tosta da subito attraverso la tensione crescente fornita da dei suoni di chitarra acustica e un’atmosfera desertica che vengono tagliati in due dal machete metallico che è la chitarra di Auerbach, e picchiati dal battere senza fretta, alla maniera di John Bonham, di Carney. Quando alla fine Auerbach arriva al ritornello, lo canta come un avvertimento acuto (“Don’t give yourself away/To the weight of love”), sostenuto dal calore di tante sorelle gospel.

Da un certo punto di vista, Weight of Love è l’album del ritorno alle origini dei Black Keys: un blues pesante, il loro. Dall’altro, questo tumulto è un passo enorme che permette l’ingresso nel migliore, più coerentemente avvicente album che i Keys abbiano mai fatto. Incluso il loro supersuccesso del 2010, Brothers.

Quel gustoso mix di soul anni Sessanta e garage-glam dal Midwest giustamente divenne un fenomeno. Turn Blue è un autentico punto di svolta – si passa a un rock decisamente originale che è carico di un’influenza blues ancora più profonda. C’è ancora il vigore minimalista dei primi album dei Black Keys, usciti dieci anni fa. Ma qui c’è un’aspra severità, c’è più ricchezza, ci sono più esplicite allusioni alle sonorità hip-hop, dinamiche da rock da stadio, abbellimenti pittoreschi da studio di registrazione e l’intelligenza di cercare la via per essere un disco commerciale in maniera però non ortodossa.

Fatta di bassi saturi e un ritornello che sembra scritto durante una veglia funebre, In Time è la versione aggressiva e aggiornata della paranoia dello Sly Stone di There’s a Riot Goin’ On , con uno spruzzo di spaghetti western di Ennio Morricone. Fever è l’incontro stravagante ma che stende fra l’euro disco e il suono unto delle band che suonano nei bar – immaginate i Kraftwerk esibirsi con la divisa dei benzinai. I Black Keys hanno lavorato a questo tipo di suono fin dal primo album fatto con Burton, Attack & Release del 2008. Turn Blue suona come un traguardo.

Burton stesso qui è praticamente un terzo componente, visto che suona tutti gli strumenti dotati di tastiera e scrive in parte tutte le canzoni (co-producendole tutte tranne due). È anche un esperto nell’arte di enfatizzare, la probabile mano dietro la rauca elettronica di Turn Blue o i colpi pesanti che caratterizzano Year in Review. I Keys però rimangono una two-man band. La loro rigida forza primaria fissa e spinge in avanti queste trame extra insieme agli inflessibili giudizi di Auerbach sull’amore, che va sempre a finire male: “I let you use my gifts/To back those lyin’ lips”, se ne esce in Bullet in the Brain, manifestazione di una rabbia violenta abbellita da un ricco riverbero. In Our Prime si avvale di meno eco ma in compenso ha più chitarre sporche, un organo che diremmo “coagulato” e un intermezzo soul con un accenno orchestrale di tastiere: “I see a face from way back when/And I explode”, canta Auerbach prima di esplodere insieme a Carney nel finale. Non è il tipo di linguaggio che attribuiamo a un Muddy Waters. Però è comunque blues.

Gotta Get Away rappresenta un finale inatteso: un rock che arriva dritto come una freccia, con un ritornello bollente, che si comporta come Train in Vain dei Clash su London Calling: un singolone-punto esclamativo. Turn Blue è apocalittico nello stesso modo di quel brano: carico di rischio, di angoscia, ma anche con un suo guadagno. Quando Auerbach canta nel finale “Blacktop, I can’t stop”, sopra i battiti ampi di Carney, sembra di ascoltare una band già arrivata alla sua prossima svolta.

(La foto in homepage è di Danny Clinch)