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“All That You Can’t Leave Behind” degli U2 è in edicola: la recensione storica di Rolling Stone

Un cofanetto raccoglie tutti i dischi della band di Bono e soci, e oggi con TV Sorrisi e Canzoni è possibile acquistare il decimo album in studio della band di Bono e soci
Un dettaglio della copertina di "All That You Can't Leave" degli U2, 2000

Un dettaglio della copertina di "All That You Can't Leave" degli U2, 2000

Dal 26 agosto con Tv Sorrisi e Canzoni, in collaborazione di Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport, arriva in edicola l’intera opera degli U2 all’interno di un cofanetto che comprende tutti gli album in studio, un cd live e 4 dvd live, in edizione digipack. Oggi esce in edicola il decimo disco in studio della band di Bono, All That You Can’t Leave Behind, e questa è la recensione apparsa su Rolling Stone US nel 2000.

Il decimo album in studio degli U2 – e il loro terzo capolavoro – All That You Can’t Leave Behind, sta tutto nella semplice miscela fra tecnica e canzoni. Il loro primo capolavoro, l’album del 1987 The Joshua Tree, sognava cattedrali d’estasi; il secondo, Achtung Baby del 1991, si sfracellava su topaie d’agonia. Ma con All That You Can’t Leave Behind, gli U2 hanno raffinato due decenni di carriera con un’apparente facilità, possibile solo a veterani della musica. L’album rappresenta la collezione più estesa di melodie azzeccate che gli U2 abbiano mai composto, un disco in cui l’orecchiabilità gioca un ruolo centrale, come in una hit dei Backstreet Boys. “I’m just trying to find a decent melody – canta Bono con una calma piena di sentimento in Stuck in a Moment You Can’t Get Out Of – a song that I can sing in my own company” (“Sto soltanto cercando di trovare una melodia decente/ una canzone che possa cantare in compagnia di me stesso”).

Fin dai loro esordi in Irlanda nel 1980, gli U2 hanno creduto che il pop potesse cantare come un angelo ma muoversi com un diavolo. Hanno sempre riconosciuto l’importanza della tecnologia in studio di registrazione. Ecco perché sono sempre sembrati così moderni – da qui la convinzione che il loro gioco sonoro di tonalità, texture, di volumi e dissolvenze fosse per loro più importante del risultato finale.
Questa credenza ha sempre pesato enormemente sugli U2, dalle canzoni orecchiabili incentrate sul beat del loro primo album, che riscaldarono il vento freddo della new wave, fino alla grandiosità delle performance negli stadi nel periodo di War, dai loro rapporti con i geni del primo folk americano, passando per l’irritante rielaborazione fatta d’amore e panico intercontinentale in Achtung Baby. Questa tensione toccò il punto più alto nel 1997, quando gli U2 pubblicarono Pop, un album inzuppato nella club music e incentrato tutto su un’ironica cassa.

Ora, dopo aver trascorso vent’anni a lanciarsi fra vari generi musicali, con All That You Can’t Leave Behind la band ha studiato tutto a tavolino tranne la cosa più importante: le canzoni stesse. All That You Can’t Leave Behind mette in mostra un fuoco interiore. Ogni traccia – anche se riflessiva ma dinamica, come Wild Honey, o pacata per poi prendere slancio come Beautiful Day – onora una melodia in modo così raffinato che ognuna sembra già un vecchio classico. Visto che stiamo parlando degli U2, le melodie hanno un impatto talmente immediato, che ogni canzone ha una risonanza che non svanisce al primo ascolto.

Le melodie rispecchiano la produzione dell’album, affidata alle mani esperte dei collaboratori di lunga data degli U2 Daniel Lanois e Brian Eno, con Steve Lillywhite che si presenta in qualche mix. Tutto si fa coerente in una specie di morsa sonora, classica degli U2: in Walk On il testo tratta di perseveranza e ricompensa, ma ciò che è davvero al centro della canzone è la tonalità in minore delle chitarre, la voce piena di desiderio e speranza. Kite parla delle difficoltà di una coppia che si sta sgretolando; quando Bono rivolge lo sguardo su The shadow behind your eyes ( “l’ombra dietro i tuoi occhi”), il suo testo evoca il confronto musicale obliquo tra melodia, ritmo e giri di accordi. Il canto di Bono ha perso un po’ di quella stravaganza eccessiva che aveva in passato, ma rimane appassionante come sempre – frenandosi, ha arricchito la sua voce di una nuova intensità.

All That You Can’t Leave Behind si fa serio sulle cose semplici. Le canzoni non sono oscurate da una produzione eccessiva, ma la band non commette l’errore comune di annoiare la gente in maniera stupida nel nome del ridimensionamento. La chitarra di The Edge è anche più schiva del solito, mostrandosi soltanto per portare accenti e texture. Con In a Little While, The Edge, il bassista Adam Clayton e il batterista Larry Mullen affondano profondamente nel groove sussurrato tipico di Al Green, in un’exploit di complessa semplicità.

Gli U2 non sono più ragazzini idealisti. In New York, la penultima canzone dell’album, Bono canta di un uomo in “midlife crisis” (“crisi di mezza età”), disperatamente attratto dalla miscela unica della città di rumore e ragione, di caos e sensazione. Sparsi per la canzone riferimenti di una vita vissuta. La band è ancora alla ricerca dell’essenziale, ma in All That You Can’t Leave Behind il dramma di questa ricerca si trova nella musica stessa, nella tensione fra violenza e gentilezza. In Grace, Bono racconta di una ragazza che “makes beauty out of ugly things” (“tira fuori bellezza dalle cose brutte”). All That You Can’t Leave Behind si pone la stessa domanda ancora e ancora: che cos’altro vale la pena cercare in questo mondo distrutto?

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