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“A un certo punto sono arrivati gli alieni”. Sufjan Stevens al Teatro della Luna, Milano

Folla delle grandi occasioni per l'unica data italiana del cantautore, sold-out, al Teatro della Luna. Noi c'eravamo e ve la raccontiamo così
Sufjan Stevens, live, concerto, Milano, 21 settembre 2015, Teatro della Luna, foto, gallery, Giovanni Battista Righetti, Should have known Better, Carrie & Lowell

Sufjan Stevens, live, concerto, Milano, 21 settembre 2015, Teatro della Luna, foto, gallery, Giovanni Battista Righetti, Should have known Better, Carrie & Lowell

Una volta, ormai diverso tempo fa, ho intervistato Sufjan Stevens. Erano gli anni dei “cinquanta stati”, quando sembrava che si fosse imbarcato in questa folle impresa di raccontare ogni stato dell’unione con un concept album. Si è fermato al volume due – più l’appendice di “The Avalanche”, la raccolta di outtake di “C’mon Feel the Illinoise” – per poi passare anni a smentire anche solo di averci mai pensato. Prima dell’intervista mi obbligarono a firmare un foglio in cui dichiaravo che durante la nostra chiacchierata non avrei mai toccato alcuni argomenti spinosi come, appunto, proprio la storia dei “50 stati”, il rapporto di Sufjan con la religione, la sua infanzia e il sesso.

come si fa a non indagare
sul rapporto con Dio
di un songwriter che infila Dio in ogni sua canzone?

Ricordo che dovetti prepararla con molta cura perché dentro di me sapevo che alcune di quelle cose sarebbe stato impossibile evitarle: come si fa a non indagare sul rapporto con Dio di un songwriter che infila Dio in ogni sua canzone? Dovevo trovare il modo di parlare di tutto, ma girandoci intorno. E non era facile. In realtà fu molto più semplice di così: mi bastò chiedergli, come prima domanda, se dopo tutto quelle uscite in fila sentisse il bisogno di doversi fermare un po’ e Sufjan partì con un monologo di dieci minuti su quanto fosse difficile accettare la curiosità morbosa della gente riguardo alla sua vita privata e di come quel maledetto concept stesse fagocitando ogni altra cosa. Parlò anche di Gesù, parlò tantissimo di Gesù. E così gli argomenti taboo vennero toccati tutti, da lui, senza che io potessi farci nulla.


Tutto questo mi è tornato in mente ieri sera quando – dopo più di un’ora di concerto senza spiccicare neanche una parola – nel momento di ringraziare il pubblico che aveva gremito il Teatro della Luna in ogni ordine di posto, si è sentito in dovere di spiegare come per lui sia terapeutico cantare ogni sera queste canzoni tristissime e che parlano quasi tutte di morte e depressione e che hanno a che fare con la sua storia personale e quella della sua famiglia. Per Sufjan la musica è essenzialmente catarsi e condivisione, un modo per aprirsi e donarsi al pubblico sperando di ricevere in cambio del conforto. Sarà per questo che la cosa che mi è rimasta più impressa della serata è un verso di Eugene, uno dei brani contenuti in Carrie & Lowell: “What’s the point of singing songs If they’ll never even hear you?”. Sufjan è tutto lì e non c’è bisogno di aggiungere altro.

Non c’è niente
che non sia calcolato

Il concerto è basato proprio sull’ultimo lavoro, eseguito nella sua interezza, ed è interessante osservare come brani concepiti utilizzando pochi strumenti – il piano verticale, il banjo, la chitarra acustica – vengano arricchiti dalla band quasi sempre in punta di piedi. Tutto è arrangiato con una cura estrema: il palco è riempito da polistrumentisti, non esistono postazioni fisse, mentre Sufjan si alterna tra chitarra, piano e un moog con cui interviene nelle lunghe code strumentali. Sembra Elliott Smith, tanto per usare un paragone abusato, in tour con la band di Peter Gabriel periodo So/Us. Non c’è niente di indie nel modo in cui i brani vengono riproposti: la sensazione è che Sufjan Stevens si sia formato musicalmente col prog e che questo elemento stia disco dopo disco, tour dopo tour, sempre più venendo fuori. Rispetto al tour del 2011, dove i brani di The Age of Adz erano parte di una strana festa in cui la cupezza dei testi si scontrava volutamente con i colori sgargianti dei costumi e la presenza sul palco anche di due ballerine, tutto appare più misurato. Se non ci fossero stati tutti questi anni in mezzo verrebbe da pensare che questi due dischi, e gli spettacoli che hanno generato, siano proprio le due facce opposte della stessa medaglia.

Anche i brani vecchi – da segnalare una strepitosa Casimir Pulaski Day, Vesuvius (forse la canzone che più di ogni altra “spiega” Sufjan Stevens) e ovviamente Chicago riproposta in chiusura in versione lenta e acustica, perfetto contraltare proprio di quella elettrizzante e allegra che chiudeva le date del tour di “The Age of Adz” – sono stati riarrangiati per suonare bene insieme a quelli di “Carrie & Lowell”. Non c’è niente che non sia calcolato, e niente che ti dia l’idea che non sia così.


Sul finale di Blue Bucket of Gold, il brano che conclude proprio l’ultimo album, Sufjan comincia a smanettare sul synth dando vita a una canzone nella canzone, una strana jam che parte ambient, passa per momenti alla Steve Reich e dopo dieci minuti si trasforma in una cavalcata prog (ancora) dove di nuovo torna a farsi sentire l’eco di Peter Gabriel. Il tutto mentre le luci arrivano a simulare un astronave. Se gli alieni fossero sbarcati in quel momento proprio al Teatro della Luna probabilmente non se ne sarebbe accorto nessuno. Alla fine dello show incontro un amico un po’ amareggiato proprio da quella lunga improvvisazione (sono andati avanti per circa quindici minuti): “Avrebbero potuto fare altre tre canzoni”, dice e ha ragione. Ma la differenza tra Sufjan Stevens e tutti gli altri emerge proprio nelle scelte di questo tipo. Il suo non è un concerto folk, e neanche indie, pop, o rock, ma tutte queste cose insieme. È musica totale dove tutto, anche le parti più kitsch, ha un senso. Il senso di Sufjan.

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