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47soul, l’electro hip hop palestinese che fa ballare Glastonbury

Reggae, danza tradizionale e storie popolari tra Londra e la Palestina: abbiamo intervistato la voce del collettivo palestinese che si esibirà all’Ariano FolkFestival

47soul, l’electro hip hop palestinese che fa ballare Glastonbury

Dalla Palestina a Glastonbury. I 47soul sono un collettivo di origini palestinesi che suona “shamstep”, un particolare frullato di hip-hop, dabke araba e musica tradizionale che è esploso nelle popolari di Londra, e da lì è arrivato fino al palco di uno dei festival più importandi d’europa. Nati ad Amman, in Giordania, hanno pubblicato il primo album Balfron Promise a febbraio, dove le storie dei territori palestinesi occupati si mescolano con quelle delle case popolari dell’East End di Londra.

In particolare la Balfron Tower, dove la band ha vissuto per un periodo, un torrione di appartamenti fatiscenti svuotato dai suoi inquilini storici dopo un passaggio di proprietà. Guardare i vicini sfrattati da un luogo che consideravano una casa è stato come un detonatore per la scrittura dei 47soul, che hanno tracciato un parallelo con la Dichiarazione Balfour del 1917. Ne abbiamo parlato con il cantante Tareq Abu Kwaik, in occasione del concerto all’Ariano FolkFestival del 17 agosto.

Che cos’è lo shamstep?
È musica influenzata dal ritmo e dalla danza di una regione storica del mondo arabo, Bilād al-Shām (la Grande Siria). Ci piace questa definizione perché racchiude il ballo, le nostre origini e uno stile di produzione musicale più elettronico.

La vostra musica ha successo sia nei festival europei che in Giordania. Perché?
È difficile parlare dell’impatto della nostra musica dal nostro punto di vista. Credo che funzioni anche lì perché usiamo suoni che vengono da quella regione, parliamo di idee e pensieri di quella regione, e lo facciamo in maniera personale.

La vostra musica è un mix tra l’hip hop e la danza tradizionale. Come funziona il processo di scrittura?
È molto democratico e tribale allo stesso tempo. Ogni canzone ha un “leader”, cioè chi ha l’idea o una visione giusta per il brano, e tutti gli altri contribuiscono alla scrittura liberamente. L’ultima parola, però, è del leader della canzone.

Il titolo del vostro album traccia un parallelo tra la vicenda palestinese e lo sfratto di una casa popolare…
Abbiamo scritto quel disco nel 100esimo anniversario di un evento che dal Regno Unito ha cambiato la nostra realtà, e continua a farlo ancora oggi. In quel periodo abitavamo nella zona gentrificata di East London, in una torre che si chiamava proprio Balfron e che rischiava di essere abbattuta. Diciamo che è in quel periodo che l’idea è arrivata nelle nostre terre, con le sillabe giuste… Quindi abbiamo deciso di raccontare la storia palestinese attraverso gli occhi di un immigrato a Londra.

Quanto vi ha influenzato la scena londinese?
I musicisti londinesi ci hanno accolto e hanno supportato lo shamstep sound e il nostro messaggio. Per noi è stata una benedizione, veniamo da regioni dove non è possibile produrre musica così diversa come a Londra, o nel Regno Unito in generale. La città ha dato vita a suoni e generi importanti per la nostra generazione, il jungle e il grime, e siamo orgogliosi che la musica dei giovani palestinesi, siriani, giordani e libanesi alimenti questi suoni.

Avete letto la storia di Jorit, lo street artist arrestato dalla polizia israeliana? Cosa avete pensato?
Sì, ne abbiamo sentito parlare. Innanzitutto ci auguriamo che Jorit e la sua famiglia stiano bene, è un fratello e un artista che rispettiamo. Solo i sistemi insicuri della loro legittimità arrestano qualcuno perché si è espresso artisticamente.

Un’ultima domanda. I Radiohead avrebbero dovuto suonare in Israele?
Tutti dovrebbero fare quello che ritengono giusto, ma è fondamentale essere cauti prima di accettare di suonare in una terra dove si fa pulizia etnica, e il sistema uccide chi protesta in maniera pacifica. Tra gli attivisti e chi ha a cuore la causa palestinese ci sono anche fan dei Radiohead, e hanno fatto il meglio che hanno potuto. Hanno mandato un messaggio, diffuso informazioni nel mondo, e la band ha preso la sua decisione. Questo è tutto quello che serve: questo scambio di tweet, mail, parole sui blog, è questa la resistenza.

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