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Nessuno canta la perdita come Arooj Aftab

Si fa un gran parlare di 'Vulture Prince' della compositrice pakistana che vive a Brooklyn. Qui si cerca di spiegarne il mistero: com'è che un disco così placido risulta tanto potente?

Nessuno canta la perdita come Arooj Aftab

Arooj Aftab

Foto: Diana Markosian

L’abitudine di etichettare la musica porta spesso all’utilizzo disinvolto di categorie critiche un po’ superficiali e un po’ ciniche. Come quella dei cosidetti mourning album. Quei dischi, cioè, nei quali si piange la morte di qualcuno, o comunque nati in seguito alla scomparsa di persone care e da questa influenzati. La casistica è ampia: si va da A Crow Looked at Me di Mount Eeerie a Ghosteen (e in parte Skeleton Tree) di Nick Cave, da Carrie & Lowell di Sufjan Stevens a Funeral degli Arcade Fire, da Electro-Shock Blues degli Eels a The Soft Bulletin dei Flaming Lips, e andando indietro nel tempo si può risalire fino a Tonight’s The Night di Neil Young.

A questa malinconica schiera si potrebbe aggiungere ora Vulture Prince, terzo disco della giovane compositrice pakistana, da tempo trasferitasi a Brooklyn, Arooj Aftab. Ma, appunto, sarebbe un modo troppo schematico di liquidare un’opera di tale intensità e delicatezza. Che sì, è parzialmente un lamento funebre in memoria del fratello più piccolo, morto proprio quando la musicista si apprestava alla stesura dei brani per il disco. In realtà si tratta di qualcosa in più e di diverso. Una meditazione, veicolata attraverso un linguaggio che ci può suonare ancestrale solo perché alieno alle nostre orecchie occidentali (tranne che in un brano Arooj utilizza l’Urdu), su un concetto di perdita che ha i tratti dell’universalità e va al di là della triste circostanza biografica dell’autrice.

Perdita di affetti, perdita di un amore, perdita delle proprie radici, perdita del futuro così come ce lo immaginavamo. Ma anche, in senso ancora più traslato, perdita delle certezze su quale sia davvero il linguaggio che ci rappresenta e ci permette di esprimerci compiutamente. Nell’ultimo senso, quindi, qualcosa che potenzialmente può preludere a una crescita, all’approdo a terre inesplorate sia dal punto di vista dell’artista che dell’ascoltatore. Da questo punto di vista, Vulture Prince è un lavoro che spiazza tanto quanto conforta. Brani come Diya Hai – l’ultimo che Arooj ha suonato al fratello – e la splendida elegia di Mohabbat avvolgono davvero come un sudario la sofferenza nella voce dell’artista, che suona tuttavia eterea e quasi disincarnata, come se avesse già raggiunto una sorta di pacificazione.

I brani ricalcano la struttura dei ghazal, componimenti poetici tipici della letteratura islamica, in particolare della tradizione persiana, e si snodano quasi tutti su intrecci di chitarra, arpa, violino, piano, a cui si aggiungono un basso acustico e un synth che creano riverberi profondi. Quando le percussioni si fanno più presenti, come in Suroor, verrebbe quasi da pensare a un ipotetico trip-hop indostano dei secoli passati. Così come Saans Lo, così sospesa nel vuoto da sembrare un fantasma tramutatosi in vibrazione sonora, è pura ambient da subcontinente indiano.

Ma di nuovo: con queste formule preconfezionate, questi ircocervi stilistici che solo la fantasia perversa dei critici musicali può partorire entriamo nel terreno minato dell’etnocentrismo. Il fascino di un album come Vulture Prince, al di là della consolazione che può offrire nel suo cantare l’assenza di qualcuno o di qualcosa (e un po’ tutti in questo periodo abbiamo dovuto fare i conti con questo sentimento, con sfumature e gravità diverse), sta anche nel suo offrire un esempio decisamente contemporaneo di quello che si è spesso definito melting pot. Non un caricaturale sovrapporsi di tradizioni distanti che vengono appiccicate assieme, come in uno spot di Oliviero Toscani degli anni ’90. E neanche una modernizzazione posticcia del folk, tantomeno di un folk che arriva dall’altra parte del mondo (chissà perché la contaminazione viene considerata “modernizzazione” solo quando intervengono suoni, strumentazioni e grammatiche occidentali sul corpo delle tradizioni altrui, mai nel senso opposto).

Il suono di Vulture Prince è quello del nostro presente perché non appartiene a un tempo e soprattutto a un luogo specifici, è antico come un canto funebre o un poema d’amore orientali e moderno come una composizione minimalista. Non si vedono le giunture, non sai decidere se è ambient, jazz, new age, folk, se all’ascolto ti vengono in mente Brooklyn o Karachi. È tutto questo insieme. Così come Arooj Aftab è una perfetta rappresentante della sua generazione artistica (e non solo artistica). Cresciuta ascoltando la musica popolare delle sue origini così come Sade, Leonard Cohen o Ella Fitzgerald, e formatasi in un alveo creativo nel quale i ghazal, l’ambient e l’hip hop sono strumenti espressivi allo stesso identico modo. Così come spiccatamente generazionale è la centralità che Aftab riconosce a tematiche come l’identità di genere, il femminismo, la cultura queer. E anche, per certi versi, un certo eccesso di zelo rispetto ad alcuni argomenti sensibili. In una intervista ha ammesso di aver avuto molti timori nel rendere un poema arabo in forma reggae (Last Night, l’unico brano in inglese) perché non voleva essere accusata di appropriazione culturale.

Fortunatamente ci ha ripensato. Non si tratta di appropriarsi culturalmente di alcunché, semmai di praticare quell’arte dell’incontro e della fusione che in fondo è ciò che da sempre crea nuove musiche e nuovi panorami culturali. Un’arte che, a giudicare da questo dolente e magnifico album, Arooj Aftab padroneggia con grazia inarrivabile.

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