Gli ultimi giorni di John Lennon: un ricordo di Yoko Ono | Rolling Stone Italia
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Gli ultimi giorni di John Lennon: un ricordo di Yoko Ono

Nel 2010 Yoko ha raccontato a Rolling Stone l’ultima settimana del marito, le session, le chiacchiere, le ossessioni. «Conta davvero che il mondo ti odia quando il tuo uomo ti ama così tanto?»

Gli ultimi giorni di John Lennon: un ricordo di Yoko Ono

John Lennon e Yoko Ono

Foto: Ethan Russell dalla raccolta 'Gimme Some Truth'

Registrare Double Fantasy è stata una grande gioia per me e per John. È stata anche un’esperienza intensa, visto che volevamo che il disco uscisse prima di Natale. John conosceva le difficoltà che mi trovavo ad affrontare e mi ha protetta fino alla fine. Se non fosse stato per lui, l’album non sarebbe stato un dialogo tra un uomo e una donna. Ma se non fosse stato un dialogo tra un uomo e una donna, John non l’avrebbe fatto. Le cose stavano così.

Nessuno era scortese con me, ma c’era nell’aria l’idea che John avrebbe dovuto fare quell’album da solo. Ero un di più che doveva essere tollerato. Mi sembra quasi di poter sentire un forte “sì!” di assenso da voi lettori, quindi non vi sarà difficile capire quale fosse l’opinione al riguardo in quel periodo.

Vista la delicatezza della situazione, John doveva lavorare all’album e nel frattempo proteggermi. La sua intelligenza acuta e la sua padronanza dello studio di registrazione non bastarono a rendere le cose più facili. Stava cercando di difendere una leonessa orgogliosa col cuore di un agnellino senza che lei se ne rendesse conto. A ripensarci adesso, mi è tutto chiaro.

Sapevo come andavano le cose nel mondo del rock fin dall’inizio delle session di Double Fantasy. Ma in una situazione di stress come quella sono tornata ad essere un’artista sperimentale. Un chitarrista non riusciva a trovare un buon assolo per una delle mie canzoni. Era notte fonda, decisi di scrivere rapidamente le note su un pezzo di carta e gli chiesi se poteva usare quelle per l’assolo. Poco prima, qualcuno mi aveva detto che sapeva leggere la musica, così avevo pensato fosse meglio dargli una bozza di annotazione invece di fargli vedere che cosa volevo suonandolo al piano, di fronte al resto del gruppo.

«Non posso suonare questa roba», disse a John. Lui mi guardò, guardò il chitarrista e lasciò la stanza facendomi cenno di seguirlo fuori dalla cabina di regia. Mi disse: «Mi devi sussurrare la musica, ricordi?» Voleva che gli sussurrassi la musica all’orecchio. Nel rock non puoi criticare i musicisti per i loro assoli. Puoi dire: «Ok, era buono, ma possiamo rifarlo un’altra volta? Magari un po’ più leggero, se possibile…». Ci si parla più o meno così. Sapevo di aver fatto un passo falso. Mi limitai a rispondergli: «Sì, lo so» e lasciai perdere.

Poi ci fu di Yes, I’m Your Angel. Io volevo farla in 3/4. John disse: «Facciamola rock, in 4/4». La registrammo come diceva lui. Una volta concluse le session, John disse: «Bene, abbiamo finito! Hai qualcosa da aggiungere, Yoko?». Risposi che volevo fare Angel in 3/4. «Oh, è vero! Era meglio se stavo zitto. Facciamoli tornare». I musicisti avevano già fatto i bagagli e lasciato lo studio. Andy, il batterista, dovette tornare dalle Bermuda! Alla fine la registrammo in 3/4, ma il problema era che l’altra versione suonava molto meglio. I musicisti la suonarono impeccabilmente in entrambi i tempi, non avevano alcuna colpa. Semplicemente, c’era qualcosa che rendeva la versione in 3/4 estremamente prevedibile, suonava molto più forzata dell’altra che, con nostra grande sorpresa, risultava invece molto più fresca. Tornammo sui nostri passi e usammo quella in 4/4. I musicisti furono molto gentili al riguardo, ma non penso di aver acquisito punti simpatia con quella mossa. Al tempo non ci detti molto peso. Gli artisti hanno il diritto di puntare alla perfezione. Ma ora riesco a capire che John mi stava aiutando senza fare tante storie.

Foto: David Nutter dalla raccolta ‘Gimme Some Truth’

Un giorno, nel pieno della registrazione di Double Fantasy, i tecnici ci dissero che avevano bisogno di due ore per riparare la console e che potevamo uscire per fare due passi. Benissimo! Uscire all’aria aperta dopo aver passato un’infinità di tempo dentro uno studio buio ci fece strizzare gli occhi. Sembrava primavera! Una giornata bellissima. Il cielo era limpido e ci sentimmo come due ragazzini che marinano la scuola. John decise di andare da Saks sulla Fifth Avenue. Si mise a girare tra gli scaffali e si fermò davanti a quello degli occhiali. «Dovremmo comprarne un paio per te». Scelse un paio di occhiali da sole neri, grandi e avvolgenti e me li mise. Fece una faccia seria. «Che c’è?». «Dovresti portarli sempre». Io pensai fosse una cosa sciocca e stavo per scoppiare a ridere, ma mi fermai. Mi stava fissando. Mi tornò in mente la prima volta che lo vidi fissare la mia opera Painting to Hammer a Nail In alla Indica Gallery. Stavolta stava fissando me con indosso gli occhiali da sole che lui aveva scelto. «Perché?» gli chiesi con lo sguardo. Lui mi prese per mano e si avviò veloce verso l’uscita. Dovevamo tornare in studio. Lì per lì mi dimenticai di quel fatto. In seguito, quelli sarebbero stati gli occhiali che avrei indossato per affrontare il mondo. Sentivo John che mi diceva: «Stai sempre a testa alta. Non devono capire che hanno colto nel segno!». Anche dopo la sua morte, mi stava proteggendo e aiutando.

Eravamo entrambi persone molto loquaci. Una volta, in ascensore, eravamo così presi dalla nostra conversazione che ci dimenticammo di spingere il bottone. Non ci siamo accorti che l’ascensore è rimasto a piano terra per un tempo indefinito. Poi la porta si è aperta ed è entrata una signora: solo a quel punto ce ne siamo resi conto. Stavamo solo parlando. Perché avevamo tante cose da dirci? Forse perché eravamo solo noi due. Avevamo tagliato i ponti e non avevamo nessun altro all’infuori di noi. John aveva conosciuto così tanta gente e stretto talmente tante mani ai tempi dei Beatles che il non avere molte persone intorno gli sembrava una cosa nuova.

Sapevamo anche essere silenziosi. Non avevamo bisogno di dirci niente, ci bastava guardarci per capire che cosa stava pensando l’altro. Più il mondo ci odiava, più forte ci proteggevamo l’un l’altro. Poco prima della fine, aveva un’espressione che amavo tantissimo: «Stai sempre a testa alta. Non devono capire che hanno colto nel segno!». Quando lo diceva io annuivo. A volte lo trovavo a riflettere da solo, con lo sguardo perso di un giovane/vecchio soldato che passa in rassegna i ricordi. Una volta mi disse addirittura: «Senti, se dovessi morire, assicurati che…» e mi dette precise istruzioni su cosa avrei dovuto fare con le outtake dei Beatles. «Ricordati di fare così». Pensai che fosse strano che pensasse ancora alle sue vecchie registrazioni. Da artista, al tempo, apprezzai quel discorso.

Una notte si mise a piangere. Singhiozzava. «Non lasciarmi da solo, non morire». «Ma John, sono più grande, quindi è naturale che me ne vada prima di te». «No, non puoi. Non puoi, punto e basta». Un altro giorno mi disse, con estrema calma: «Se muori, farò di te una zuppa e la berrò. E finalmente saremo un corpo solo». L’idea gli piaceva a tal punto che iniziò a dirlo ai ragazzi con cui lavoravamo. «Sapete, se Yoko muore, ne farò una zuppa e la berrò…». Lo guardavano tutti con faccia impassibile, come se non avesse detto niente di strano. John sembrava un bambino quando lo diceva. Un ragazzino che ha avuto un’idea geniale.

Come coppia non eravamo molto amati, per dirla con un eufemismo. Intorno a noi, tutti sembravano pensare che se non fosse stato per me i Beatles sarebbero tornati insieme. Nel periodo in cui ci siamo separati, John mi disse che aveva dovuto fare un’intervista in cui affermava che forse i Beatles sarebbero tornati insieme. La casa discografica pensava che, se non lo avesse fatto, non ci sarebbe stato modo di vendere il suo album. Quindi rilasciò quell’intervista e me ne inviò una copia. Se guardate quel famoso video, noterete bene che John ha un’espressione imbarazzata. Cercava di essere spiritoso, quello era una via d’uscita che funzionava sempre. Se uno come John faceva un’intervista in cui non credeva, doveva aver subito pressioni molto forti. Pensai che se ci fossimo separati forse sarebbe tornato a essere il ragazzo famoso di una volta. Ma non era solo quello il motivo per cui volevo la separazione. Anch’io ne avevo abbastanza di essere odiata da tutto il mondo. Era un inferno. E cominciava ad essere pericoloso per me. E le vendite degli album di John ne stavano risentendo, il che significava un duro colpo per la sua carriera. Mi sentivo in colpa. Ma John era entusiasta della nostra coppia. Quindi decidemmo di metterci comodi nel nostro angolo d’inferno e divertirci. Inferno! Cos’è l’inferno?

«Finché staremo insieme, saremo felici. Ci importa qualcosa dell’opinione degli altri? No, Yoko, non ci importa. Quando saremo vecchi, ce ne staremo sulle nostre sedie a dondolo in Cornovaglia ad aspettare le lettere di Sean».

Durante il periodo di Double Fantasy la creatività di John era tornata in forma smagliante: scriveva pezzi bellissimi, li registrava. Ma durante le notti aveva incubi terribili riguardo a una nostra nuova separazione. Stavolta a causa della morte.

Foto: Iain Macmillan dalla raccolta ‘Gimme Some Truth’

Mi occupai io della grafica della copertina di Double Fantasy. Scelsi un bel carattere per il testo e usai due foto di Shinoyama per il fronte e il retro dell’album, ma le volli mettere in bianco e nero. Le foto originali erano a colori. Pensai che il bianco e nero avrebbe rappresentato meglio l’album, per il suo essere realistico. Pensai che avrebbe mandato un messaggio chiaro: è un documentario, non un romanzo. Ma “la vita accade mentre sei impegnato a fare altri programmi,” come diceva John. Guardando la copertina oggi, mi chiedo se inconsciamente non ci fossero altri motivi dietro alla mia scelta del bianco e nero.

L’album era finito. Facemmo uscire il singolo (Just Like) Starting Over, ma non arrivò al primo posto. Andai dai John, che se ne stava seduto su una sedia a leggere i giornali. «John, mi dispiace, ma il singolo è all’ottavo posto in classifica». «Pensi che salirà?». «No». Mi guardò pensieroso per un attimo, poi aggiunse: «Va bene lo stesso, abbiamo la nostra famiglia».

Se il singolo fosse arrivato al numero uno, John aveva in mente grandi piani. Era inglese fino al midollo, e voleva portare me e Sean in Inghilterra con la Queen Elizabeth 2. Voleva far conoscere a Sean la zia Mimi e passare da Liverpool. Ma dovemmo lasciar perdere quei piani.

L’ultimo weekend fu molto tranquillo. Il cielo era grigio, ma in modo rilassante. E la città sembrava essersi addormentata.

La giornata di sabato iniziò con John che ascoltava Walking on Thin Ice. Era molto concentrato, così decisi di andare al chiosco dei giornali e mi venne in mente di comprargli dei cioccolatini per fargli una sorpresa. Lui amava la cioccolata, ma in quel periodo stavamo seguendo una dieta senza zuccheri. Dopo l’abbuffata di droghe degli anni ’60, John voleva che fossimo puliti e sani «anche per il bene di Sean». Ma quel sabato, l’ultimo suo sabato, pensai di fargli una sorpresa e comprare dei cioccolatini. Non so perché mi venne in mente. Non amavo la cioccolata, quindi non mi mancava. Ne presi alcuni e tornai a casa. Quando uscii dall’ascensore, rimasi sorpresa nel vedere che John aveva aperto la porta appena prima che suonassi il campanello. «Come facevi a sapere che stavo tornando?». «Oh, io lo so sempre quando torni». Era così felice che gli avessi portato dei cioccolatini. Mi ricordo il modo in cui sorrise.

Quello stesso giorno, John s’era messo in testa di portare nella stanza bianca tutte le mie opere, che erano nello scantinato. Non era la prima volta che lo diceva, ma quel weekend me lo chiese di nuovo. «È assurdo, abbiamo tutti quei capolavori e li lasciamo in cantina. Me li voglio godere». L’idea di trovarmi ogni giorno davanti agli occhi i miei vecchi lavori mi annoiava. Di conseguenza, le mie opere erano rimaste accatastate in cantina a prendere polvere. Al tempo non me ne importava molto. «John, possiamo occuparcene dopo che abbiamo finito l’album? Abbiamo troppo da fare adesso». «No, dovremmo farlo ora. Altrimenti non lo faremo mai». La sua voce, nel pronunciare quelle parole, era velata di tristezza, come se sapesse che non l’avremmo mai fatto. E andò proprio così.

Per tutto il giorno, John ascoltò a ripetizione Walking on Thin Ice. Non avevamo ancora sovrainciso la parte di chitarra, quindi immagino che la riascoltasse per capire che cosa fare. Ma non era da lui pensarci per così tanto tempo. Andai a letto e quando mi svegliai, la domenica mattina stava ancora ascoltando Walking on Thin Ice mentre guardava fuori dalla finestra verso il parco. Sapevo che era un bel pezzo, ma pensavo solo a come avremo potuto perfezionarlo musicalmente, al tempo non mi ero spinta oltre. Solo di recente ho iniziato a pensare che forse John vedeva la canzone sotto una luce diversa.

Walking on thin ice

I’m paying the price

For throwing the dice in the air.

Ma nel bridge, dopo la seconda strofa dice:

I may cry someday,

But the tears will dry whichever way

And when our hearts return to ashes

It’ll be just a story.

Non avevo pensato che in effetti dice: “Un giorno potrei piangere,” e non “un giorno potresti piangere” o “potremmo piangere”.

Ma dove avevo la testa? Quel weekend, mentre la ascoltava con tanta attenzione, John probabilmente l’aveva notato. Era forse per via di quella frase che non smetteva di ascoltarla? Sapevamo qualcosa? Io? John? Quel weekend, la morte non era un argomento di discussione. Ma ci aleggiava intorno come una nebbia spessa. L’ultima domenica. In un certo senso, sono felice che non sapessimo che quella era la nostra ultima domenica insieme, così siamo riusciti a passarla con una parvenza di normalità. Ma alla fine si rivelò tutt’altro che una domenica normale. C’era un’atmosfera di presagio, come il silenzio che precede uno tsunami. L’aria si stava facendo sempre più tesa e densa. A un certo punto, ricordo di aver visto distintamente le onde propagarsi nella stanza. Erano linee ondulate, come quelle che si vedono sul monitor dell’elettrocardiogramma accanto al letto d’ospedale prima che diventi una linea piatta. «John, va tutto bene?», domandai in quell’aria densa. Lui si limitò ad annuire e continuò ad ascoltare Walking on Thin Ice a tutto volume. Walking on thin ice. Walking on thin ice… «John, John, va tutto beneeee?». Sentivo la mia voce vibrare. Per qualche motivo non riuscii ad avvicinarmi a lui. WALKING ON THIN ICE. WALKING ON THIN ICE. WALKING ON THIN ICE. Mi resi conto che ci trovavamo entrambi in una sorta di strana dimensione extratemporale, come se fossimo in un sogno. Poi tutto si fermò. Mi addormentai, un sonno lungo e leggero. John sopra di me che mi baciava con tenerezza.

Lunedì. L’ultimo giorno della sua vita, ci svegliammo col cielo terso sopra Central Park. Era una giornata che prometteva energia ed entusiasmo. Avevamo un programma piuttosto serrato. La sessione fotografica con Annie Leibovitz, l’intervista alla radio RKO e poi dalle 6 del pomeriggio dovevamo essere in studio. John amava essere puntuale. Lui era inglese, io giapponese, e di conseguenza entrambi eravamo capaci di essere estremamente austeri e ilari, senza soluzione di continuità. Nel pomeriggio il cielo si fece grigio. John continuava a parlare con l’intervistatore della RKO di un sacco di cose. Si stava facendo tardi per l’appuntamento in studio. Mi fiondai in macchina e vidi che John si era fermato a fare un autografo per un tizio fuori dal Dakota. «John, siamo in ritardo!». Mi ricordo che ero un po’ nervosa. C’era proprio bisogno di fare un altro autografo?, pensai. John disse qualcosa tipo: «Ok», e corse verso la macchina, si sedette accanto a me e mi prese per mano, come era solito fare. La macchina partì. Lo so, finisco sempre per parlare delle sue mani. Le adoravo. Lui diceva che aveva sempre desiderato avere mani come quelle di Jean Cocteau, con dita lunghe e affusolate. Ma io ero cresciuta circondata da cugini con mani aristocratiche. Io amavo quelle di John, pulite, forti, mani da classe operaia che mi afferravano appena c’era occasione.

Rimanemmo in studio fino a tarda sera. Poco prima di uscire, mentre ci trovavamo in una stanza accanto alla cabina di regia, John mi guardò. Io lo guardai. Aveva lo sguardo intenso di chi sta per dire qualcosa di importante. «Sì?», gli chiesi. Non dimenticherò mai il modo in cui, con voce profonda e dolce, come a voler imprimere le sue parole nella mia mente, mi disse cose meravigliose. «Oh», risposi io distogliendo lo sguardo, imbarazzata.

Sentirmi dire cose del genere dal mio uomo, nonostante i 40 fossero già passati da un pezzo, be’, in quel momento pensai che ero una donna fortunata. Ancora oggi, se ci ripenso, rivedo quei suoi occhi penetranti. Non so perché avesse deciso di dirmi quelle cose in quel momento, come se volesse che le ricordassi per sempre. Conta davvero che il mondo ti odia quando il tuo uomo ti ama così tanto? A chi sarebbe importato vivere all’inferno se significava vivere con lui? Certe coppie hanno la fortuna di vivere in paradiso. Il paradiso mio e di John era all’inferno. E noi amavamo quell’inferno. Non avremmo desiderato nient’altro al mondo.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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