Morricone odiava i sintetizzatori, ma li usava benissimo | Rolling Stone Italia
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Morricone odiava i sintetizzatori, ma li usava benissimo

Il compositore detestava le tastiere che replicano il suono degli strumenti acustici. Dietro a questo fastidio quasi luddista c’era la voglia di creare suoni sempre nuovi. E l’ha fatto spesso, utilizzando anche le “macchine”

Morricone odiava i sintetizzatori, ma li usava benissimo

Ennio Morricone nel 2016 alla O2 Arena di Londra

Foto: Jim Dyson/Redferns

“Ci son due coccodrilli e un orangotango…”. Quale motivetto descrive meglio il momento in cui il maestro Ennio Morricone ha lasciato questo pianeta? I coccodrilli pronti nel cassetto, ahimè non erano due, ma decine: tirati fuori senza pietà, scopiazzando a destra e a manca. Il giornalismo è riuscito ancora una volta a distinguersi in negativo, nutrendo la forza distruttiva dell’orango tango dell’encomio, della lode spergiura, della famosa “lingua nel sedere del morto”. Sono stati pochi gli omaggi sentiti e giusti, perché i soliti improvvisati “amici intimi di Ennio”, che in realtà al massimo gli hanno stretto la mano, hanno invaso il campo impedendo ogni partita.

Prima di essere compositore blasonato e persona generosa, Morricone era un uomo con le sue contraddizioni, a volte criticabilissime come il carattere particolarmente burbero (famosa la sua lapidaria frase «solo i dilettanti compongono al pianoforte»). E in particolare c’è una cosa che oggi volevamo rilevare: cioè il suo rapporto idiosincratico con il sintetizzatore, verso il quale provava un fastidio quasi luddista e a volte anche irrazionale. Morricone mi piaceva per questo, per il suo modo “elettrico” di pensare, senza cerimonie, bello diretto, che a volte era capace di essere brutale ma nello stesso tempo nascondeva un candore fanciullesco. O almeno questo è quello che pensai quando a 14 anni lo conobbi a cena dal compianto Gillo Pontecorvo, che ebbi la fortuna di avere come amico di famiglia.

È stata la prima e l’ultima volta che vidi di persona il maestro e chiacchierai con lui: e mi disse la fatidica frase, mentre frizionava i bicchieri di cristallo sulla tavola producendone suoni, «senti, suonano meglio di un sintetizzatore Fm» (che allora andavano forte). Io mi chiedevo per quale motivo le due cose non potessero stare insieme e a parte scoprire più tardi che questa storia dei bicchieri me l’aveva rivenduta citando Evangelisti (suo accolito nell’esperienza del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza e appassionato di bicchieri intonati), una risposta non me la sono mai data realmente: ho tentato di farlo ora che possiamo guardare l’opera del maestro come un testamento.

Se digito “Morricone sintetizzatore” su Google, mi escono solo pagine in cui il nostro si scaglia a cannone contro l’uso della macchina musicale e del computer. Tanto che a una certa cominci a equivocare che lui l’abbia con la musica elettronica. Invece no, la distinzione è netta: l’elettronica, infatti, nelle sue opere l’ha sovente usata, proprio come fil rouge dalle sue esperienze concreto/sperimentali del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza. Se si sentono le potentissime colonne sonore per Elio Petri (basti pensare a La classe operaia va in paradiso, un coacervo di filtri elettronici ed effetti che in pratica lo vedono, se non pioniere dell’industrial, proprio dell’harsh noise), ci accorgiamo che l’uso è ben più, sì ecco, estremo.

In pratica l’uso del sintetizzatore come imitazione degli strumenti acustici da Morricone viene visto rigorosamente come una scorciatoia alla composizione e direzione orchestrale, come un metodo cheap per riempire il vuoto dei fotogrammi e nulla più, ma soprattutto un insulto al sintetizzatore stesso, che come il maestro dice è nato per fare ben altro che dei meri scimmiottamenti. Si direbbe che più che altro Morricone ce l’abbia col mondo delle workstation, reo di rendere dei dilettanti compositori di musica da film. Se questo in parte è corretto, dall’altro lato verrebbe da dire che se tali dilettanti hanno idee brillanti e pochi quattrini, perché non lasciarli fare. Anche perché gli score composti al tavolino senza quelli che Morricone chiamava “brogliacci” a Hollywood hanno una tradizione che ha lasciato comunque il posto a delle colonne sonore orrende, che magari prendono anche l’ Oscar. Oscar che invece Morricone si è strasudato e che gli è stato consegnato così tardi che pare volessero darlo al suo cadavere.

La questione è che Morricone era un vero e proprio artigiano, uno che vede la partitura come un’officina: non a caso ha sempre ripetuto di avere la cultura del lavoro. E a parte l’odio per l’imitazione dei suoni delle moderne tastiere, è un approccio da homo faber che quindi poco si accoppia anche con gli on/off e i play dei sequencer, i quali rappresentano i prodromi dell’automazione completa. Morricone mette in guardia dal fatto che gli uomini non dominano le macchine come dovrebbero, ma ne sono spesso dominati, anzi si fanno dominare perché è comodo. E, in effetti, se pensiamo ai brani trap o pop composti con i generatori automatici di canzoni dai cellulari ci rendiamo conto che il maestro è lucido. Però, se sondiamo la sua produzione, vediamo che ci sono dei tentativi di introdurre il synth che rivelano altro e sono meno lucidi.

Morricone si approcciava alla modernità in maniera non tanto passatista, quanto piuttosto come un Roberto Cacciapaglia quando s’inventa Ann Steel Album, cioè un disco synth pop fatto con clavicembali trattati e catene che percuotono corde di pianoforte (e che probabilmente ai metodi del maestro deve più di qualcosa). Insomma, una roba che è idea di modernità fatta da chi non sa che cosa sia. Ecco perché molti dei brani di Morricone che sono su film in teoria pop come Diabolik alla fine sono una roba bizzarra che nulla ha che spartire col beat e con il lounge di riferimento, anzi risultano disturbanti lasciando quel punto interrogativo tra voluto/non voluto che affascina.

Il rapporto di Morricone col mondo moderno nasce da un immaginarlo, ma non nel viverlo: ce lo vedete Ennio in un fumoso club a ballare? Io no, lo vedo però alla scrivania che scrive pagine e pagine di musica. Synth o meno, è proprio tutto il pacchetto dell’oggi a disturbare la sua concentrazione, perché la modernità vuole mettere le pantofole alla creazione: Ennio invece cerca di ottenere suoni nuovi dal già dato dello strumento acustico, trascendendolo, andando oltre come da grande tradizione del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza. Detto questo, come dicevamo, il compositore ha provato a piegare il synth ai suoi voleri. Pescando random, ad esempio nella colonna sonora di Così come sei del 1978 ci sono un paio di tracce “disco” particolarmente sintetiche, come Dance On (celeberrima per essersi trasformata poi nella sigla di Supercar Gattiger) e Spazio 1999, un confidenziale plasticosissimo che richiama l’omonima serie, di cui Morricone curò lo score, nel quale ci sono dei passaggi sintetici sequenziati con la funzione “sample and hold” da sturbo (parlano chiaro i titoli come Elettronica).

La colonna sonora di The Humanoid, anno 1979, non poteva prescindere dal synth ed ecco che infatti spuntano delle perle come l’andazzo quasi computerizzato del tema principale (a cui sembra si sia ispirato Battiato per Il vento caldo dell’estate). Nel film Spogliati, protesta, uccidi! c’è Sinket primo, epicissimo e composto proprio con lo storico sintetizzatore omonimo, “cassone” degli anni ’60. Mentre ne L’istruttoria è chiusa: dimentichi, anno 1971, troviamo Ergastolo che prevede dei generatori di rumore passati per un wah. Quando il sintetizzatore è invece usato alla guisa di parte di un tutto, come in Controfase, disco di culto del 1973, Morricone raggiunge picchi psichedelici d’incredibile profondità e allucinazione. Ma il testamento in questo senso è contenuto nella colonna sonora premiata con un Oscar The Hateful Eight, nel brano L’inferno bianco (Synth) in cui sembra voler finalmente far pace col tanto odiato marchingegno con un’ode alle sequenze random. E poi c’è la strabiliante aporia de La cosa che è un caso a sé: lì fu Carpenter a rivedere il sound trasformando le partiture orchestrali in scheletriche pulsazioni minimal synth tirandone fuori il nocciolo freddo e mortifero, ma in quel caso Morricone era “sintetico” di partenza, senza aver bisogno della coperta di Linus dello strumento.

Moltissimi musicisti elettronici fanno cover dei suoi brani o s’ispirano direttamente a lui sia per i suoi paesaggi sonori che per le sue trovate armonico-ritmiche che scavallano i mezzi con i quali sono registrate (tra i tanti, Orbital e Future Sound of London, ma in fondo anche l’Aphex Twin di Computer Controlled Acoustic Instruments pt2): Morricone il sintetizzatore lo tira fuori da qualsiasi cosa. Non è la macchina, ma lui stesso e la sua mente a produrre suoni nuovi.

Probabilmente la verità è riferita dallo stesso Morricone in un’intervista a Tv2000, quando afferma: «Mi dispiace di non parlare inglese, mi dispiace non comandare i sintetizzatori… Quegli apparecchi con cui tutti lavorano così (mima con le mani): io non so fa’ niente. Certe volte non apro nemmeno il telefonino». Il che ci fa ancora più amare quest’uomo orgoglioso, tanto testardo nelle sue posizioni quanto fragile. Ma è proprio da quest’amore/odio/tensione/frustrazione/sfida ai limiti che Morricone ha scritto tra le migliori pagine atte a descrivere la nostra (in)attualità tecnologica. E se tra i vari preset delle master keyboards più in voga c’è anche spesso l’imitazione dell’incipit de Il buono il brutto il cattivo, un motivo in fondo c’è.

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