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‘Maybe We’ll Make It’ di Margo Price è una delle storie più rock’n’roll dell’anno

Nella sua autobiografia, la musicista country più tosta e progressista d’America spiega com’è sentirsi falliti di talento in un mondo di mediocri. È un casino ed è impagabile

Foto: Alysse Gafkjen

Appartamenti scalcinati e nottate in galera. Lavori orrendi mollati dopo pochi mesi e concerti di fronte a una dozzina di persone. Motel pulciosi e finti manager che ti fregano i (pochi) soldi che investi nella tua attività. Traslochi da un posto di merda all’altro e locali in cui nessuno t’ascolta. Nottate brave e risvegli da incubo. Delusioni e approfittatori. E questo non per uno, due o tre, ma per dieci e passa anni. E in più, tanto alcol, un bel po’ di coca, funghetti allucinogeni, erba a volontà e uno stile di vita sballato degno dei Rolling Stones anche non sei una star, ma una musicista disgraziata che a stento sopravvive.

Lo racconta Margo Price nell’autobiografia Maybe We’ll Make It (University of Texas Press, in lingua inglese). Ispirato dalla lettura di Just Kids di Patti Smith, il libro narra in buona sostanza dei lunghi anni in cui la musicista, oggi uno dei nomi belli del country alternativo americano, ha tenuto duro alla ricerca pressoché disperata d’un modo per farcela. Si parte da quando, illuminata dalla psilocibina, lascia la casa dei genitori nel Midwest per cercare fortuna. Si passa attraverso vari gradi di devastazione e umiliazione. S’arriva al punto in cui finalmente la cantante viene messa sotto contratto dalla Third Man Records di Jack White per il debutto Midwest Farmer’s Daughter, uno dei dischi country più belli degli ultimi tempi le cui session sono state finanziate dal marito (e spesso co-autore) Jeremy Ivey vendendo l’automobile. Price finisce per esibirsi al Saturday Night Live, ma anche questa è una storia di vergogna, rabbia, eccessi insensati e iniezioni di vitamina B12 per tirarsi su.

Che la protagonista scapigliata di questa storia sia una musicista country (anche se dal country prende spesso le distanze) non deve stupire. È la vecchia storia rock’n’roll e un po’ punk-rock e direi anche hippy, è quel che unisce un popolo trasversale di musicisti sognatori bastardi perdigiorno d’ogni epoca e stile, affratellati dalla capacità di sperimentare di tutto, il meglio e il peggio, illuminazioni e mortificazioni, tutto pur di non vivere una schifosissima esistenza ordinaria.

Che Margo Price fosse bravissima già lo sapevo. Ora so pure che è spudorata. Nelle interviste che sta facendo, come quella al Guardian, ha riferito dei dubbi circa l’opportunità di pubblicare il libro, ha detto di avere sofferto d’attacchi di panico mentre lavorava a queste piccole grandi confessioni di cose di cui solitamente ci si vergogna e perciò le si tiene per sé, cose che non sapevano nemmeno gli amici, i genitori, le sorelle, tra cui l’alcolismo – «il mio editore ha detto che in sostanza il whisky è un personaggio del libro», ancora al Guardian.

Maybe We’ll Make It non è solo il catalogo degli errori di Margo Price. È anche la parabola col lieto fine d’una musicista che, faticosamente, costruisce il proprio destino e in questo è una vicenda squisitamente americana. È pure la storia d’una donna vulnerabile, tosta ma tutto sommato insicura come tutti noi, ai limiti della e forse oltre la dismorfofobia, una donna che cerca uno spazio nel music business e intanto deve trovare un modo per essere sia mamma, sia musicista. Di una madre che perde dopo pochi giorni uno dei gemelli che ha partorito e del suo dolore straziante. Di una cantante che viene rifiutata da un’etichetta discografica perché «grazie, ma abbiamo già altre donne in catalogo» e che fugge in modo rocambolesco dall’abitazione d’un produttore che le ha drogato il drink. Una che ha capito: cerca ingaggi e non viene considerata e perciò s’inventa la figura fittizia d’un tour manager uomo e quando scrive con quel nome maschile le risposte cominciano ad arrivare.

In Italia Margo Price avrà meno di 25 lettori, ma chi se ne frega: Maybe We’ll Make It è una delle storie più rock’n’roll dell’anno e serve a ricordarci, che ci piaccia o meno il country, che c’interessi o meno come girano le cose a Nashville, cos’è il desiderio che spinge certi musicisti a non mollare anche se il mondo sembra andare in tutt’altra direzione. È la certezza assurda e immotivata che anche per te, che sei ai margini di tutto, arriverà una ricompensa. È l’idea che l’estasi sia questa cosa qua: la musica vissuta come comunità d’intenti, i musicisti come famiglia fuori dalla famiglia, una confraternita di poeti sballati perdenti che hanno una visione e vanno dritti per la loro strada senza svendersi. Margo Price non offre una versione idealizzata di questa vita, ci mette dentro anche la miseria e la vergogna, ma te lo fa capire bene che sentirsi falliti di talento in un mondo di mediocri non ha prezzo.

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