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Lo spirito del figlio Arthur abita ‘Fede, speranza e carneficina’ di Nick Cave

Abbiamo letto il libro-intervista con Seán O’Hagan, 400 pagine di conversazione libera e personale. Se Cave ha trovato Dio nel trauma, l'elaborazione del lutto è diventata una missione religiosa

Foto: Sergio Albert

Partiamo da un presupposto. Fede, speranza e carneficina, appena pubblicato dalla Nave di Teseo in contemporanea con l’edizione originale, è il primo libro-intervista di Nick Cave e solo per questo motivo varrebbe la pena di leggerlo. Il testo, oltre 400 pagine, è il frutto di un lavoro di sbobinatura che il giornalista irlandese Seán O’Hagan ha svolto partendo da 40 ore di registrazioni. Il lungo botta-e-risposta, ispirato alle interviste classiche della rivista Paris Review e autorizzato da Cave dopo anni di “silenzio stampa”, riflette l’esperienza di una conversazione a ruota libera, anche molto personale, cominciata nell’agosto 2020 e conclusasi un anno più tardi. La schiettezza delle domande, volutamente reiterate, a volte sul filo della ridondanza, e l’onestà delle risposte, che per chi segue il canale diretto coi fan The Red Hand Files non rappresenta una novità, cercano di sviscerare il mare di argomenti che la vita e le opere di Cave rappresentano.

La scintilla del libro è scoccata nel marzo 2020, in pieno lockdown. O’Hagan (che conosce Cave dal 1987) e il cantante, forzati a stare nelle loro rispettive abitazioni, hanno stretto un rapporto via via più intimo. Séan e Nick sembrano a volte l’allegoria di Fede e Ragione: uno che cerca di mettere in dubbio l’altro e viceversa.

Un’altra delle cose particolari che accadono durante la lettura di questo libro è la sensazione di stare con i due protagonisti nel flusso degli eventi (spesso luttuosi) mentre si susseguono le domande e le risposte. Nell’ambito della carriera, ad esempio, si succedono i lavori. Escono il live pandemico Idiot Prayer: Nick Cave Alone at Alexandra Palace, il cofanetto B-Sides & Rarities Part II con i Bad Seeds, il nuovo album Carnage con Warren Ellis e il relativo tour, le colonne sonore La Panthère des Neiges e Blonde di Andrew Dominik, regista di due lavori con Nick Cave, One More Time with Feeling (2016) e This Much I Know to Be True (2022).

Dal punto di vista personale Cave apprende della morte di sua madre, Dawn Cave, deceduta a Melbourne all’età di 93 anni ed è costretto a darle l’estremo saluto via Zoom (per alleggerire il tono il suo gemello Earl l’ha definito uno “zoomerale”). Poi tocca ad Anita Lane, figura centrale della vita e delle opere caveiane. «Mi ricordo una telefonata con Anita un paio di anni fa, stavamo parlando dei vecchi tempi e ho detto: “Eravamo una coppia di mostri, tu e io”. “ Lei ha risposto: “Be’, sicuro, ma tu hai sempre voluto bene a tua madre”».

Poi se ne va un amico, Hal Willner, che aveva visto poco prima della sua morte per Covid: «Se le nostre vite sono in qualche modo misurate dalla profondità del nostro impegno nei confronti del mondo e di chi lo abita, Hal dovrebbe essere canonizzato, cazzo. Era un grande uomo. Lo era veramente. Una persona davvero unica».

Mentre O’Hagan segue la redazione di Fede, speranza e carneficina, perdono la vita anche Mark Lanegan e Chris Bailey dei Saints. Il 9 maggio 2022 muore il primogenito del cantante, Jethro Cave, nato dieci giorni prima di Luke, figlio avuto dalla giornalista Viviane Carneiro. Era appena uscito dal carcere dove si trovava in seguito a una condanna per percosse alla madre e da parecchi anni soffriva di problemi mentali e indulgeva nell’abuso di sostanze. In tutta quest’oscurità c’è qualcosa che – secondo lo stesso Nick Cave – gli sta cambiando la vita. Ci si chiede sinceramente, a un certo punto, se quella che un tempo – ormai lontano – era una delle rockstar più maudit di sempre potrebbe diventare un fervente credente senza più nemmeno uno brandello di scettiscmo. A suo modo lui risponde: «Penso che sarei più felice se smettessi di guardare le vetrine e mi decidessi a entrare» nel “negozio” della fede assoluta in Dio. E aggiunge: «L’ateismo costituisce un male per chi di mestiere fa il musicista».

Cave dice che «Dio è il trauma stesso» e che il lutto è una sorta di missione religiosa. È come se avesse trovato un antidoto al Danno. La terribile scomparsa dell’altro gemello, Arthur, nel 2015. Al centro delle correnti del mare caveiano che Fede, speranza e carneficina tenta di esplorare riluccica la sua indispensabile figura tragica.

Il figlio di Susie Bick e di Nick Cave, che il 14 luglio del 2015, in preda agli effetti allucinogeni del’LSD, è caduto da una scogliera a Brighton, sembra la pietra angolare di ogni singola parola di questo volume, un fantasma di cui il padre si nutre per evocare il potere trasformativo del lutto. È la necessità di aprirsi sul dolore, di scriverne il lessico, di fondare una sua religione. E il giornalista lo comprende bene, indagando quasi fino all’ossessività ogni singola piega presa dal discorso. Accade nel caso si stia parlando della cancellazione del tour di Ghosteen o quando O’Hagan tenta in tutti i modi di capire come si scrive una canzone e perché crea tutta quell’ansia al suo celebre amico.

Gli scenari naturalistici dell’innocenza a Wangaratta, la storia familiare o quella dei Birthday Party e dei Bad Seeds, la maledizione di Skeleton Tree, Nina Simone, Jimmy Webb, un commovente aneddoto su Lou Reed, la storia della tossicodipendenza da eroina, il giorno della morte del padre per un incidente d’auto quando Cave aveva 19 anni, i dissidi e la riappacificazione con Mick Harvey, lo scazzo finale e l’uscita di scena di Blixa Bargeld, le dinamiche di coppia con Susie Bick e con Warren Ellis. La decisione di comporre canzoni astratte eliminando la terza persona. Quella di unirsi al pubblico in un abbraccio. Le statuette di ceramica. Dopo ogni cosa, ogni passione, ogni incazzatura, qualsiasi sia l’argomento, si torna sempre e comunque ad Arthur. Come fosse un mantra sano e benefico. Il nodo gordiano, davvero, leggendo Fede, speranza e carneficina, pare sciolto senza tagli brutali. E, forse, somiglia ora a quel cerchio argenteo che campeggia in copertina.

A proposito di Arthur, c’è tutto il racconto su com’è nato Ghosteen. Scopriamo che il più bell’album di Nick Cave & The Bad Seeds dai tempi di No More Shall We Part è un mondo costruito dal padre per l’anima del figlio scomparso. «Seán, quest’idea è fragile e aperta a domande quanto può esserlo un’idea, ma per me, a livello personale, ecco: io sono convinto che il suo spirito abiti quest’opera. E non intendo nemmeno in senso metaforico, intendo proprio in senso letterale. Non è un pensiero che ho espresso in precedenza, ma lo sento vagare attorno alle canzoni».

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