Per pura coincidenza, la scorsa settimana mi arriva un messaggio da un’amica. «Voglio sposare Yung Lean» recita il WhatsApp, a cui rispondo ironicamente: «Wow, sei la prima persona a pensarlo». Viene fuori in realtà che la suddetta amica non ha mai sentito manco una canzone del cantante e rapper svedese, né tantomeno si è invaghita imbattendosi in una sua foto. Questa infatuazione, per così dire, nasce da un’ospitata che Lean ha fatto poco tempo fa ai microfoni di Popcast, il podcast “pop” del New York Times. Nell’ora e mezza di chiacchierata insieme ai due conduttori, Jonatan (vero nome) affronta anche temi difficili, soprattutto quello della salute mentale.
Usando l’esempio di Kanye, che Lean conosce personalmente, lo scandinavo tutto tatuato difende a spada tratta l’uso dei farmaci per curare e tenere a bada la sindrome bipolare, di cui è affetto Kanye, lo stesso Lean e pure la mia amica. Dopo aver preso le distanze dalla figura pubblica di Ye, che sostanzialmente si rifiuta di curarsi perché sostiene che i farmaci compromettano la creatività (con tutte le conseguenze scandalose che conosciamo del caso) Yung Lean descrive il non prendere farmaci come «essere sotto l’effetto di una droga. Credi di poter fare tutte queste cose fantastiche, ma in realtà non stai facendo nulla. Quindi provo compassione per lui (Kanye, ndr), so che ha un cuore grande, ed è tutto quello che posso dire. Si può essere bipolari anche sotto l’effetto dei farmaci e rimanere comunque super creativi».
Foto: Edith Marchiani per Rolling Stone Italia
Quello di ieri sera al Fabrique di Milano non è il primo concerto di Yung Lean della mia vita. Ma posso dire con certezza, sotto ogni punto di vista guardando all’artista e alla persona Jonatan Leandoer, 29 anni, in arte Yung Lean, è stato il migliore finora. Ergo, quello che ha detto ai microfoni del New York Times è vero al 100%.
Rispetto alla sola data italiana dell’anno scorso, al Poplar di Trento, il Forever Young Tour è tutto un altro campionato. Non solo a partire dagli elementi di entertainment, cioè la band di quattro elementi (basso, batteria, chitarra, tastiera) in rigoroso abito giacca e cravatta. Band che tra l’altro può apparire e scomparire dietro a un telo bianco che si alza e si abbassa a seconda della natura della traccia suonata – se è trap, il telo si alza, il DJ a fianco all’artista si palesa, la band scompare e sul telo vengono proiettate immagini ammalianti di forme di carta, come angeli, draghi, soli e lune come ombre cinesi.
Dicevo, non solo dalla parte di entertainment, ma il miglioramento è tangibile anche nella sicurezza, nelle doti canore e di fiato che il rapper sfoggia sul palco. Non una sola nota steccata su Red Bottom Sky, uno dei più grandi capolavori del pop degli ultimi 30 anni, non una singola barra persa sulla leggendaria Afghanistan, nonostante il fiato abbondantemente perso a saltare, e far saltare, l’intero Fabrique sulla precedente, cattivissima Hoover.
«Viva Italia! Thank you Milano» ripete spesso dopo l’esecuzione di un pezzo. Il Fabrique è palesemente oltre la capienza massima, qualche Gen Z, dopo aver passato ore ad aspettare, e poi almeno un’altra ora e mezza a saltare in un pogo da sei persone al metro quadro, magari filmando con un Nintendo DS o una piccola fotocamera digitale del 2001 (ho le foto, posso testimoniare di aver visto la scena), magari si sente poco bene e viene portato via dai paramedici. Niente di grave, però forse magari la prossima volta lo farei più adatto.
Foto: Edith Marchiani per Rolling Stone Italia
Dalla mazza chiodata alla corona di rami d’argento, poi, è palese che qui il limite creativo e d’immagine sia praticamente inesistente, fondendo elementi trap e “della strada” (uno degli ultimi pezzi è pur sempre Ginseng Strip 2002) a un’iconografia molto scandinava. Dopodiché, a una certa, sul ritornello di Horses mi chiedo quanto potesse durare uno svedese senza prima o poi tirare fuori delle chitarre distorte non proprio a livello dei connazionali Meshuggah ma quasi Arch Enemy, toh. Per il resto, il mood è decisamente quello del rock anni Duemila, sia dal punto di vista dell’arrangiamento live dei pezzi più recenti (soprattutto quelli del progetto a vero nome Jonatan Leandoer), sia da quello estetico: per metà concerto, il biondo indossa una giacca stile napoleonico da ussaro che andava molto in voga nel rock dei primi anni del nuovo Millennio (penso ai My Chemical Romance), mentre la band in completo scuro e cravatta à la Interpol.
È rincuorante vedere in forma una persona alla quale, fino a 10 anni fa, da appena adolescente, non avrei dato più di altri 15 anni di vita. Droga, depressione, episodi psicotici non sono più un miraggio lontano, uno spauracchio sconfitto. L’insidia è sempre dietro l’angolo. Ma qui è chiaro a tutti di avere davanti un artista che a manco 29 anni insegna a vivere a gente più piccola e più grande, più famosa e meno di lui. Il tutto, senza la minima intenzione di farlo. Semplicemente, Yung Lean è.
