Il festival When We Were Young 2023 è stato l’apice del revival del punk-pop? | Rolling Stone Italia
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Il festival When We Were Young 2023 è stato l’apice del revival del punk-pop?

Green Day, Blink-182, Offspring e Thirty Seconds to Mars sul palco, Cameron Diaz fra il pubblico, Tony Hawk in rampa. A Las Vegas si è celebrata una cultura che non è più patrimonio esclusivo di chi è stato ragazzino tra gli anni ’90 e i primi 2000

Il festival When We Were Young 2023 è stato l’apice del revival del punk-pop?

Blink-182

Foto: Quinn Tucker per When We Were Young 2023

Non sono mai riuscito a capire in quali termini un singolo evento possa alterare gli equilibri di una metropoli come Las Vegas, che di entertainment ci vive ed è progettata per accogliere fiumane di gente che ogni singolo giorno affollano i casinò, i luoghi della musica, quelli dello sport e di qualunque altra attività ludica che mente umana possa immaginare (per darvi un’idea, qui si tengono tanto le finali nazionali di rodeo quanto la più grande convention mondiale dedicata alla pizza). Eppure, durante quest’ultimo fine settimana non si riusciva a trovare una bettola vacante a meno che non si volessero sborsare diverse centinaia di dollari per notte. Niente, neanche uno sgrauso Motel 6, in una città che ha notoriamente più camere d’hotel che gente sobria per le strade.

Mi arrangio come posso e arrivo di buon mattino per quella che è la seconda edizione di When We Were Young, mega-festival da due date consecutive (la stessa line-up suona sia il sabato che la domenica) di cui una sold out (si stimano circa 80 mila biglietti venduti, a partire da 250 dollari al giorno cadauno) e l’altra poco ci è mancato, che nasce in pieno revival punk-rock e pop-punk, e che quest’anno vede in cima al cartellone tre band che nella seconda metà degli anni ’90 hanno esportato nel mondo le sonorità alternative delle coste californiane: Green Day, Blink-182 e Offspring.

When We Were Young 2023. Foto: Enzo Mazzeo

Pochi mesi fa, in questa stessa location si celebrava un altro revival, quello del nu metal, rappresentato da un evento denominato Sick New World. La formula è identica: quattro palchi, varie attività collaterali e, soprattutto, una serie di comfort, venduti a carissimo prezzo, che sono un vero e proprio must nonché tratto distintivo di qualunque festival americano. Qui, addirittura, le aree vip partivano dai lati e arrivavano praticamente davanti ai palchi principali (il Pink Stage e il Green Stage, posti uno di fianco all’altro), lasciando ai comuni mortali solo una striscia di asfalto centrale e poi le retrovie. A scanso di equivoci bisogna dire che anche ai possessori di biglietto popolare (se così si possono definire 250 dollari giornalieri) vengono comunque garantiti servizi di buon livello: acqua gratis a volontà (siamo a fine ottobre, ma a Las Vegas ci sono comunque 32 gradi), bagni puliti, ampie zone d’ombra, vaporizzatori e molti punti di ristoro, che vanno dagli hamburger alle specialità asiatiche, dai cocktail bar alle degustazioni di vini. Certo, un bicchiere di frutta con qualche pezzo di ananas e melone lo si paga come una cena completa in molte parti d’Italia, ma tant’è, prendere o lasciare.

Nella sala stampa incontro Chuck Comeau e Jeff Stinco dei Simple Plan, band canadese che incarna perfettamente gli stilemi dell’emo, del pop-punk o del power pop, che dir si voglia, e che infatti era riuscita a piazzare vari singoli nelle classifiche di inizio millennio mantenendo uno status invidiabile anche negli anni successivi (il prossimo concerto milanese del 18 gennaio è già sold out, per dire). A loro chiedo come spiegano questo nuovo fermento del genere. «Quello che ha sempre contraddistinto la nostra band è che abbiamo sempre dedicato molte energie alla composizione», dicono. «E crediamo che sia proprio questo aspetto ad accomunare tutte le band presenti oggi: collettivamente abbiamo prodotto tante ottime canzoni, che potrebbero essere spogliate di tutti i lustrini e rendere perfettamente anche se suonate in chiave acustica, davanti al caminetto». Non fa una piega. Ma c’è dell’altro. «Questa è una scena che trasmette un grande senso di appartenenza che definiremmo transgenerazionale. Pensa soltanto a chi pratica lo skate, il surf, o altri sport. Questa è la musica perfetta per loro. Taylor Swift probabilmente non sortirebbe lo stesso effetto». Intanto ci passano accanto gli All Time Low, che ci salutano fin troppo calorosamente, e dopo di loro la leggenda dello skate Tony Hawk.

Simple Plan. Foto: Justin James per When We Were Young 2023

Goldfinger e Tony Hawk. Foto: Megan Blair per When We Were Young 2023

C’è una atmosfera rilassata fra band e addetti ai lavori, e non è la norma in un festival di queste dimensioni. Proprio All Time Low e Tony Hawk si renderanno protagonisti, poco dopo, di due collaborazioni accolte con grande entusiasmo dal pubblico: i primi, assolutamente a sorpresa, hanno infatti invitato sul palco Avril Lavigne (la madrina di questo revival pop-punk oseremmo dire) per duettare su Fake As Hell (brano scritto dagli ATL proprio in collaborazione con lei) e Sk8ter Boi (portato invece al successo dalla canadese), mentre Hawk si è prima esibito in una serie di trick sulla grande rampa posta all’interno dell’arena, con grande gioia di tutti i giovani skater presenti, e poi è salito sul palco con i Goldfinger per cantare Superman.

Assisto intanto alle esibizioni dei 5 Seconds of Summer, dei Rise Against e soprattutto dei Sum 41, band che negli ultimi anni sembra essere rinata (salvo poi annunciare che alla fine del ciclo del prossimo disco si scioglierà definitivamente): il frontman Deryck Whibley sul palco è una furia, carismatico e impertinente al punto giusto. Nella mezz’oretta a loro disposizione i Sum tengono letteralmente in pugno la folla. La tensione cala con i Good Charlotte, band guidata dai fratelli Joel e Benji Madden che offre uno spettacolo dignitoso ma senza sussulti. Non mancano però di smuovere un grosso gruppo di bella gente della zona vip in tenuta da Coachella che si avvicina al palco proprio mentre ci salgono loro. In quel momento, fra la bella gente di cui sopra mi sfila davanti Cameron Diaz, in tutto il suo splendore. Mentre passa mi chiedo se sia proprio lei, poi mi ricordo che è sposata con Benji Madden. Tutto torna.

Avril Lavigne sul palco con gli All Time Low. Foto: Mandohundreds

Deryck Whibley coi Sum 41. Foto: Enzo Mazzeo

Dopo i Good Charlotte basta spostarsi sul palco a fianco per vedere un’altra star di Hollywood, che invece a Cameron Diaz era stata sentimentalmente legata in passato: suonano infatti i Thirty Seconds to Mars di quella vera e propria icona di stile che risponde al nome di Jared Leto, vestito infatti di tutto punto con tuta da motoGP Alpinestars, ampio mantello glitterato e occhiali da sci. Chiunque altro avrebbe fatto la figura del Power Ranger a una festa in maschera, ma lui invece può permettersi di fare quello che vuole, e infatti lo fa: sette brani in totale fra cui le hit Kings and Queens e This Is War (durante la quale duetta con Tim McIlrath dei Rise Against), si muove come un ossesso da una parte all’altra del palco, si lancia e canta tra la folla e, per l’ultima canzone in scaletta, l’ottima The Kill (Bury Me), chiama sul palco i fan e qualche fotografo (c’ero anch’io, ebbene sì) a documentare il tutto. Finito lo show aspetta addirittura dietro le quinte e abbraccia e saluta i fortunati fan che erano riusciti a salire sul palco. Un presobene vero!

Jared Leto coi Thirty Seconds to Mars. Foto: Enzo Mazzeo

A giudicare dalle magliette viste in giro e da vari altri indizi disseminati per gli enormi spazi dei Festival Grounds, sembra chiaro che gran parte del pubblico è comunque qui per i Blink-182: vuoi per il ritorno del redivivo Tom DeLonge nella band, vuoi perché Mark Hoppus ha da poco annunciato di aver sconfitto il cancro, vuoi perché Travis Barker è sempre sulla bocca di tutti, tanto per le scorribande con le Kardashian quanto per i suoi successi come produttore (il fenomeno Machine Gun Kelly, per fare un esempio, ma la stessa rinascita di Avril Lavigne sono farina del suo sacco).

I Blink dal vivo sono una garanzia: possono contare sul solido apporto ritmico di Barker (uno dei migliori batteristi dell’intera scena rock, senza dubbio), un sound molto ben riconoscibile e una serie di hit che hanno ridefinito i canoni del punk-pop. Fanno anche diversi brani dell’ultimo disco, ma non quella When We Were Young che tutti si aspetterebbero a un festival che si chiama proprio così. La ritrovata interazione tra Hoppus e DeLonge fa il resto, e non si parla solo di musica ma anche delle spassose gag piene di doppi sensi che i due inscenano fra un pezzo e l’altro. What’s My Age Again?. Appunto.

Dexter Holland con gli Offspring. Foto: Enzo Mazzeo

Ottimi anche gli Offspring, un’altra band che sembra rinata nel giro di pochi mesi. Dexter Holland è fisicamente in forma smagliante (è dimagrito tantissimo soltanto rispetto all’ultimo tour), alla batteria il giovanissimo Brandon Pertzborn, da poco subentrato, che fa un lavoro enorme, e poi quelle canzoni rimaste impresse nella memoria di tanti. Pensiamo a Why Don’t You Get a Job? e Pretty Fly (For a White Guy), dei veri e propri tormentoni per la MTV generation, o inni come Self Esteem e All I Want.

Green Day. Foto: Enzo Mazzeo

I Green Day, che con Dookie furono una delle prime band della scena alternativa degli anni Novanta a raggiungere un tale successo di massa (nel 1994 uscirono a stretto giro Dookie, appunto, e un paio di mesi dopo Smash degli Offspring, due album monumentali nel genere), snocciolano un campionario di hit micidiale: American Idiot, Jesus of Suburbia, Minority, Basket Case, When I Come Around. Billie Joe Armstrong e Mike Dirnt sembrano divertirsi un mondo, Tré Cool appare un po’ imbolsito e a tratti affaticato, ma la serata la porta a casa comunque. I Green Day eseguono anche l’inedito The Americam Dream Is Killing Me per la seconda volta in assoluto (la prima sempre a Las Vegas durante un pre-show a sorpresa in un piccolo club, dove hanno anche annunciato un tour negli stadi con Smashing Pumpkins e Rancid). Insomma, va bene la nostalgia, ma emo o non emo, sembra che, almeno dal vivo, il rock sappia ancora fare numeri da capogiro.