Vasco a San Siro: l’epica di un’icona | Rolling Stone Italia
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Vasco a San Siro: l’epica di un’icona

Che non sia più (solo) un cantante lo sappiamo tutti benissimo, ma certamente saperlo non è come vedere con i propri occhi un rito messianico rinnovarsi negli anni

Vasco a San Siro: l’epica di un’icona

Vasco a San Siro

Foto: Michele Aldeghi

Nell’ottobre del 1983 mio padre porta mia madre a un concerto di Vasco Rossi: si conoscono da poco e la data milanese del lungo tour di Bollicine, iniziato nel mese di febbraio con la data romana a Villa Giordani, è una ghiotta occasione per quello che negli annali familiari sarà ricordato come il loro primissimo appuntamento.

Un concerto normale, verrebbe oggi da pensare, di uno di quegli artisti che fanno numeri già grandi, che certamente sono in assoluta ascesa e tuttavia sono ancora lontani anche dall’immaginare la marea umana degli stadi – in particolare di quello di San Siro, che Vasco conquisterà per la prima volta ben più avanti, nel 1990, 29 anni fa.

Se il materiale di alcune date di quel tour confluirà nel primo album live di Vasco – nonché in uno dei più bei live italiani di sempre –, e cioè Va bene, va bene così del 1984, fa una grande tenerezza oggi pensare al fatto che sia esistito davvero un tempo in cui Vasco Rossi era un cantante che si esibiva in locali di piccola-media grandezza, posti con nomi che oggi, associati al suo, sembrano costruire la premessa di una barzelletta: “C’erano un milanese, un palermitano e un romano a vedere Vasco Rossi al Teatro Tenda”: ahahah, e chi ci crede?

Ieri, a San Siro, una tenda in effetti c’era, e con alta probabilità non era nemmeno l’unica: stava su un prato spelacchiato sul lato est dei cancelli dello stadio Meazza e ospitava un paio di ragazzi sulla trentina che, come da annali da delirio rock, sono arrivati la sera prima con la speranza di non perdersi la prima fila all’apertura delle porte.

Foto: Michele Aldeghi

Che Vasco non sia più (solo) un cantante, insomma, lo sappiamo tutti benissimo, ma certamente saperlo non è come andarlo a scoprire da molto vicino né, tantomeno, quanto riscoprirlo ogni volta, vedere con i propri occhi un rito messianico rinnovarsi negli anni, gonfiarsi di adepti ipnotizzati, avvinti, imploranti un bis e una parola, pronti a celebrare insieme quella che da tempo ha smesso di essere (solo) musica per trasformarsi in una forma di religione, un credo esistenziale.

Che la metafora religiosa non sia affatto eccessiva ma, anzi, la più calzante possibile, me lo conferma definitivamente un uomo non più giovanissimo che ieri, appena varcate le soglie rotanti dello stadio si è inginocchiato a terra, con braccia e mani buttate in avanti, la schiena piegata così tanto da portare la fronte a toccare l’asfalto bollente: il movimento della preghiera ripetuto più volte fino a quell’ultimo gesto prima di alzarsi, prendere la fascia rosa con scritto VASCO a caratteri cubitali e alzarla al cielo per poi, un attimo dopo, annodarsela intorno alla fronte.

Sono proprio oggetti come questo, la fascia sulla fronte, le magliette di ogni tipo, dalle più eleganti e retrò con il logo rosso triangolare di Vasco a quelle con la faccia appiccicata male di un eroe anziano – dove le rughe si confondono nelle pieghe della t-shirt con le date di tour passati e con citazioni in ogni font possibile –, a ricordare che il culto, qui, è qualcosa da appiccicarsi addosso, moltiplicarsi a dismisura dalle orecchie alla pelle, dal cuore alle ossa.

“La la la la la la la, falla godere” recitano le schiene rosa acceso di un gruppo di donne davanti a me, si abbracciano e urlano: è l’addio al nubilato di una di loro e Vasco è lo spogliarellista di turno, l’ultimo uomo da guardare prima della fine, l’ultima festa da celebrare – questo, ovviamente, secondo i canoni dell’addio. Tra i molti “Vasco è fede / bastardo chi non crede” scritti sul ventre, sulle braccia, sul viso e un tripudio di tatuaggi tribali che dagli anni ’90 hanno perso colore e spuntano da ogni dove, sento crescere tutta l’estraneità, e inizio a domandarmi se ci sia qualcuno qui, come me, venuto per partecipare alla sua messa, che di Vasco voglia soprattutto scorgere quella lucina negli occhi, quella specie di luminescenza antica che c’è sempre stata nel suo iride chiaro, quella punta di malinconia eterna, atavica, mischiata all’impazienza, alla fame, alle sostanze prese e abbandonate, al groviglio sentimentale trasformato in musica che sembra essere stato lì sempre, prima di uscire a farsi scrivere e cantare, prima di essere nostro, certo, ma forse anche prima di essere suo.

Quella lucina c’è, arriva subito, appena le luci del palco si accendono, le urla crescono e i maxischermi, oltre ai lustrini sulla giacca, rivelano il volto che tutti stanno aspettando: quel viso, quel viso con tutta la sua storia in evidenza, con i solchi del tempo attraversati da ciò che non cambia mai: un sorriso beffardo, ironico, consapevole che non lo abbandonerà per tutte le due ore e mezza di concerto; e poi quegli occhi bambini, quegli occhi che brillano, antichi e perenni, che luccicano più di quella giacca d’argento.

Foto: Michele Aldeghi

La prima delle sei date a San Siro (anche 2, 6, 7, 11 e 12 giugno), corpus centrale e snodo nevralgico di un tour che si concluderà poi subito con altre due date a Cagliari, si apre con Qui si fa la storia: una promessa che si inserisce perfettamente in quello che è uno dei principali temi di Vasco live, oggi e da tempo: l’epica. Epica è l’intro che lo accoglie sul palco, epica è tutta la presentazione della sua icona su maxischermo prima di quell’inquadratura sui suoi occhi e sulla sua persona reale, epiche sono le grafiche tra Blade Runner e Fast and Furious che attraversano il palco per tutto il concerto, con la pretesa di inglobare i musicisti in palle di fuoco in movimento, autostrade pretenziosamente tridimensionali ed effettistica in eccesso. Epica sarà anche la presentazione dei musicisti a fine live: qualcosa di molto televisivo – che naturalmente non è Vasco in prima persona a fare – e che si rivela sempre come uno dei momenti meno rock di uno spettacolo rock, il momento in cui più appare incolmabile la distanza tra un Vasco cantautore, musicista, artista e un culto della personalità che svuota dell’arte e disperde la sostanza emotiva e creativa di fronte all’epica – appunto – della grandezza e del carrozzone.

E però, il carrozzone, che in apertura di questi live Vasco aveva dichiarato più vicino al punk di una volta, qui funziona benissimo: certo, avremmo preferito più occhi brillarelli da guardare e meno tamarrate in grafica, avremmo voluto forse – avrei voluto, certamente – ascoltare Fegato spappolato in uno scenario più sobrio, senza lapilli di finta lava grafica, uno scenario capace di evidenziarne l’enormità artistica effettiva – quel gusto sì realmente punk che avvolge il più bel racconto leopardiano d’anima persa nel dì di festa in provincia dopo quello di Leopardi stesso; sarebbe stato bello che certe chicche in scaletta come Asilo Republic, Domenica Lunatica, Ti Taglio la Gola, Tango della Gelosia, cose che appartengono sì a un afflato punk di cui tanto avremmo bisogno, ci fossero state cantate così, più pulite e quindi più sporche, più scarne, crude, violente come sono nate, lontane dall’iper riflettore, dal delirio estetico che imbruttisce anziché impreziosire.

Foto: Michele Aldeghi

In ogni caso, però, va detto: Vasco è un mostro, è un mostro fantastico che vive nelle sue canzoni, che se a parlare si perde (ci dice almeno tre volte che è arrivata l’estate, e ok) a cantare, in questo giugno 2019, non perde un colpo. Voce in grandissima forma e sbavi morbidissimi per uno che ha fatto dello sbavo e dell’imprecisione la sua naturale classe assoluta, la sua cifra estetica e la sua fortuna. Commuove, dietro tutto il baraccone, la sostanza più profonda, La nostra relazione che spunta all’improvviso e spalanca lo sterno, Massimo Riva che emerge dalle sue canzoni, a tal punto da fartelo vedere lì, con la sua chitarra, che ti mostra quanto quella chitarra, in quei pezzi, sia valsa e valga per sempre quanto i testi, quanto ogni linea melodica; quella mano di Vasco appoggiata all’asta del microfono come 40 anni fa, il viso che a volte si piega verso il basso, le mani sugli occhi lucidi, le dita sulla faccia, un barlume lontano e vicinissimo di struggimento supremo.

Le donne gli lanciano ancora i reggiseni, lui ci gioca, li annusa, ride, li ributta nel pubblico. Il campionario dei gesti è fermo nel tempo, commovente e pervasivo a tal punto che il pubblico lo imita, lo riproduce, lo ha fatto proprio: il movimento pelvico in avanti, le braccia spalancate a migliaia, mentre lui grida al suo popolo innamorato la frase che tutti vogliono sentire, per un minuto, una volta soltanto: “Andrà tutto bene, ce la farete tutti”.

E glielo concedi, perché questo deve fare la canzone, questo non può fare la politica: promettere un sogno, senza curarsi della sua verità, senza pensare se sarà o meno realizzabile, se il desiderio di oggi, la speranza di oggi saranno il mondo di domani. La musica, invece, realizza da sé la promessa, in quell’istante stesso, mentre i fuochi d’artificio tagliano a colori il cielo su San Siro sulle note, oggi quarantennali, di Albachiara. E tutto il mondo, per pochi istanti, è davvero fuori.

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