Unsound Festival: un lampo di futuro nella Polonia sovranista | Rolling Stone Italia
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Unsound Festival: un lampo di futuro nella Polonia sovranista

Si è appena concluso quello che per chi ama la musica elettronica sperimentale è forse il più importante ritrovo del mondo: un luogo in cui gli opposti si attraggono, tanto da farti dimenticare che abbia senso parlare di opposti

Unsound Festival: un lampo di futuro nella Polonia sovranista

In una settimana molto delicata per la Polonia, quella che avrebbe portato all’esito di un voto importante, che ora sappiamo aver decisamente confermato la supremazia dell’estrema destra cristiana, euroscettica e conservatrice del PiS al governo, a Cracovia si svolgeva quello che per chi ama la musica elettronica sperimentale è forse il più importante festival del mondo: l’Unsound. Nato nel 2003 come minuscolo evento (pare che alle prime edizioni avessero partecipato un paio di centinaia di persone, e che gli organizzatori avessero avuto problemi con le location che non capivano la musica proposta), ad oggi Unsound si svolge durante un’intera settimana a Cracovia e, in altri momenti dell’anno, porta i suoi eventi satelliti in giro per il mondo, in Australia, a New York, Toronto, Londra, Minsk, per citare soltanto alcune località toccate da questa piattaforma sperimentale.
Più che di un festival, infatti, si parla di “platform for exchange of artistic ideas for musicians, visual artists, curators, journalists, record label owners and booking agents from every continent.”

Già da questa panoramica si capisce la centralità di un evento del genere in un Paese che, come molti altri, sta lottando contro la disastrosa tendenza alla chiusura sovranista del proprio governo. All’interno degli spazi industriali del Forum – edificio brutalista abbandonato per anni che dal 2012 ha visto nuovamente la luce grazie al primo evento notturno organizzato da Unsound – è evidente il richiamo a qualcosa di diametralmente opposto al clima politico del Paese che ospita il festival: grossi cartelli rossi recitano “WE ARE EUROPE,” come se non bastasse dare una rapida scorsa alla line-up per capire la direzione ideologica, se così si può dire, che questo festival reclama fieramente.
In cartellone sono presenti artisti di ogni continente: si passa dall’energia esplosiva del collettivo africano Nyege Nyege, reduce dalla seconda edizione del suo festival in Uganda, alla sorgente del Nilo, che in pochissimo tempo è già diventato una destinazione iconica per gran parte della scena elettronica underground mondiale (per la cronaca, a entrambe le edizioni hanno partecipato anche musicisti italiani, prima Simone Trabucchi con il suo progetto Still e quest’anno una delegazione di artisti del festival Saturnalia di Milano) alle costruzioni sonore stratificate degli artisti di SVBKVLT, label di casa a Shanghai.

33EMYBW – Foto di Filip Preis

C’è il Brasile di Badsita, producer affiliata a Tormenta, collettivo di San Paolo, c’è la tunisina Deena Abdelwahed, il beatmaker palestinese Muqata’a, Hildur Guðnadóttir, la violoncellista islandese a cui si devono le colonne sonore di Chernobyl e Joker, oltre che artisti e collettivi locali come i raver WIXAPOL.

Unsound è un festival politico, che ragiona sull’inevitabile globalizzazione della musica underground come possibilità per tracciare linee invisibili e gettare ponti tra generi, progetti e persone le cui distanze, anziché essere un ostacolo, sono un incentivo alla contaminazione e alla collaborazione. Non a caso il tema di questa edizione è Solidarity. Ma a prescindere da questo la fama di Unsound è data anche dagli innesti assurdi che è sempre riuscito a creare: è decisamente la piattaforma con la più alta densità di progetti collaborativi messi in piedi ad hoc o back to back tra antipodi, come quello tra Slikback e la producer cinese Hyph11E, quello tra l’australiano DJ Plead e l’italianissimo TSVI o la session tra il percussionista portoghese João Pais Felipe e il tedesco Burnt Friedman.

Questo è il luogo in cui gli opposti si attraggono e si mescolano, tanto da farti dimenticare che abbia senso parlare di opposti. Il mondo del clubbing sperimentale, da qualche anno a questa parte, ha ricominciato a insistere su quella che è sempre stata la funzione originaria del dancefloor: creare un luogo sicuro per tutti i freak, per i disadattati, per chi durante il giorno viene marginalizzato, escluso o discriminato. Vedendo dietro le quinte la performer statunitense Lyra Pramuk ridersela amabilmente con Holly Herndon, Colin Self (che fa parte del coro che la accompagna nel tour di Proto) e la DJ newyorchese Jasmine Infiniti, il mio cuore si riempie di gioia, anche perché non credo di aver mai partecipato a un festival con così tanti artisti non-binary in lineup: nella stessa serata suonava il mio idolo assoluto Aya (per la cronaca, uno dei migliori live mai visti) e chiudevano Octo Octa e Eris Drew. Qualche anno fa ragionavo sul fatto che la musica del futuro sarebbe stata queer, e questo non significa soltanto che sarebbe stata creata da artisti omosessuali o transessuali, ma soprattutto che accogliesse l’ibridazione, la deterritorializzazione e riterritorializzazione dei suoni dominanti. E questo è esattamente quello che sta succedendo: ci stiamo riappropriando dal basso di un’industria culturale spesso machista, fatta di cubiste, line-up popolate di soli uomini, un certo tipo di estetica EDM e così via. I nostri corpi e le nostre orecchie si riempiono di suoni tutt’altro che straight, anzi si potrebbe dire transgender, data la assoluta impossibilità di ricondurre la maggior parte dell’attuale elettronica underground a uno specifico genere. E per quanto mi riguarda non siamo mai stati così in forma.

Il mio festival si è concluso con un live assurdo e incredibile dei Matmos, che presentavano il loro ultimo album Plastic Anniversary, toccando un altro dei Fil Rouge di questa edizione: l’attenzione al nostro disastratissimo Pianeta. Unsound sta calcolando il proprio impatto ambientale e la prossima primavera pianterà tanti alberi quanti necessari per compensarlo.

Insomma, se si pensa a quanti festival in pochi anni diventano macchine da sponsor, sacrificando la propria natura, la ricerca artistica, l’attenzione alla comunità locale e spesso il benessere dei partecipanti per poter crescere, la mia impressione su questo festival è che il prefisso Un- stia per uncompromised. L’esempio che ci si può espandere in maniera sostenibile, intelligente, consapevole e riuscire a stare sempre all’avanguardia.

Foto di Filip Preis

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