«Mr. Jones è il tuo cazzo, vero?». È questo il tenore delle domande che Adam Duritz si sentiva urlare dai fan nel 1994 quando i Counting Crows erano all’apice del successo e il loro album d’esordio August and Everything After stava sbancando le classifiche. Per dare un’idea del fenomeno, solo quell’anno il disco ha venduto 3,8 milioni di copie (per intenderci, 500 mila in più di Dookie dei Green Day). Mr. Jones ovviamente non parlava del cazzo di Adam Duritz, ma dei suoi sogni di rock’n’roll. Molto probabilmente non era neanche la canzone migliore dell’album dei Crows, ma è diventata la più famosa grazie alla diffusione del video su MTV che ha trainato tutto il disco e il successo della band in generale. Al punto che ancora oggi molte persone li identificano esclusivamente con quella canzone, il cui tema centrale è diventata una vera e propria condanna per il gruppo, come una sorta di profezia autoavverante sul desiderio di successo e sul suo lato oscuro.
La celebrità è stato un tema critico per molte band degli anni ’90, Nirvana e Pearl Jam in primis, ma se l’anti-stardom fosse stata dichiarata disciplina olimpica state pur certi che Adam Duritz e i Counting Crows sarebbero saliti sul podio. La mitologia della canzone è stata distrutta dallo stesso Duritz durante una puntata di VH1 Storytellers in cui ne fece una versione acustica scarnificata e spettrale, cambiando alcuni versi sulla fama in senso nettamente più pessimistico e modificando il finale da “Mr. Jones and me / We’re gonna be big stars” a “Mr. Jones and me, we don’t see each other much anymore”.
Da anni ormai Duritz ha fatto pace col brano ed è tornato a cantarlo (più o meno) nella sua versione originale, ma evidentemente non lo considera il pezzo forte del suo repertorio, tanto che ieri sera all’Alcatraz di Milano non è stato suonato né come bis, né come finale del primo set, ma “liquidato” subito in partenza come terza canzone. Scelta coraggiosa e al tempo stesso pienamente consapevole dell’ampia faretra di frecce disponibili al proprio arco. Del resto, Duritz non ha mai avuto paura di sfidare il proprio pubblico sul palco: «Non soffro di ansia da palcoscenico» aveva dichiarato già ai tempi della famosa cover story di Rolling Stone nel 1994, aggiungendo poi ironicamente «Soffro di ansia per tutto il resto della mia vita».
Al netto di Mr. Jones, il tema della fama è rimasto in ogni caso molto presente nella scrittura di Duritz. Tanto che anche il primo singolo del nuovo album, Spaceman in Tulsa, con cui hanno aperto il concerto milanese, in fin dei conti non è altro che una riflessione più matura sull’essere diventato una “fottuta rock’n’roll star”. Il suo mid-tempo allegro e spensierato detta il mood iniziale della serata, che parte come una bella bighellonata tra amici; la mente va dritta a Hangingaround, che arriverà poi per davvero a farci ballare tutti quanti nel delirio finale dell’encore, con tanto di Stef Burns spuntato fuori dal nulla, come ospite a sorpresa senza senso.
Sul palco a suonare insieme a Duritz c’è quella che ormai si è consolidata come la nuova formazione ufficiale dei Crows, con i tre chitarristi storici David Bryson, David Immerglück e Dan Vickery in prima linea, la (relativamente) nuova sezione ritmica, composta da Jim Bogios alla batteria e Millard Powers al basso, posizionati nelle retrovie, e infine il grande polistrumentista Charlie Gillingham a destreggiarsi tra le tastiere nella zona posteriore di destra – eccezion fatta per quando prende in braccio la fisarmonica e scende in prima fila, mostrando a tutti (caso mai ce ne fosse ancora bisogno) quanto uno strumento del genere possa essere fondamentale nel creare la giusta atmosfera in un gruppo rock.
Per quanto il carisma di Duritz abbia spesso monopolizzato l’attenzione dei fan, durante il concerto in realtà sono loro a garantire la giusta dose di gasamento del pubblico, facendo un lavoro mostruoso per mantenere sempre riconoscibili i brani, anche al netto delle mille modifiche melodiche, testuali e vocali improvvisate sul momento dal loro leader. Fosse solo per Duritz, che possiamo considerare come il più grande autosabotatore della storia del rock, faremmo molta più fatica a riconoscere i brani. Qualcuno nel pubblico scherza: «Se ti piacciono i dischi dei Counting Crows non devi venire a sentirli dal vivo». Può sembrare una boutade, ma in realtà non è un’opinione così rara tra i fan. E il motivo è strettamente legato al modo di cantare le canzoni da parte di Duritz, la cui voce è sempre stata, invero, un po’ polarizzante per via del timbro molto particolare.
Ma non è questo il problema riscontrato dal vivo. Anzi, ai fan dei Crows piace questo suo cantato che può ricordare Bob Dylan (citato anche in Mr. Jones), non perché vi sia una reale somiglianza, ma perché, pur non essendo particolarmente pulito o virtuoso, riesce comunque a comunicare la verità emotiva delle sue canzoni in una maniera estremamente intima e genuina. Non è assurdo cogliere nella voce di Duritz delle sfumature quasi “emo”, che a volte lo fanno sembrare come se fosse sul punto di piangere, soprattutto quando raggiunge i registri più alti. Una cosa non molto cool per una band che infatti, nonostante l’incredibile successo ottenuto all’inizio degli anni ’90, è sempre stata circondata da un’aurea di uncoolnes. La stessa che, per intenderci, ha avvolto anche altre band di successo di quegli anni, come la Dave Matthews Band oppure i Bush o i Live. Nemmeno il fatto che Duritz sia uscito sia con Jennifer Aniston che con Courteney Cox, cioè due delle protagoniste della sitcom più seguita degli anni ’90, è bastato per risollevare la band da un certo alone di sfiga. Ad aggiungerne un ulteriore strato ci ha poi pensato la colonna sonora di Shrek II, che agli occhi della Gen Z li ha trasformati in «una band da cartone animato» come mi ha detto mio nipote.
Ad ogni modo, il principale motivo che per alcuni rende difficile sostenere l’esperienza live dei Counting Crows sono le numerose improvvisazioni vocali di Adam Duritz, che spesso entra in una sorta di zona di canto scat jazzistico e rispetto alle versioni in studio modifica la melodia, la metrica e la pronuncia oppure aggiunge intere sezioni e incisi all’interno dei brani, riscrive i versi, cita altre canzoni, inibendo di fatto il singalong del pubblico, salvo quando lo decide lui. Per certi versi questo costituisce un punto debole, perché diminuisce il grado di coinvolgimento dello spettatore, ma per altri è anche un punto di forza, perché elimina l’effetto karaoke di plastica e rende ogni concerto un’esperienza unica e vitale. La cosa ha meno impatto sui pezzi nuovi, perfettamente incastonati nel set, ma non ancora abbastanza interiorizzati dal pubblico per accusarne le variazioni: dal talking blues di With Love, From A-Z alle chitarre tirate di Boxcars fino alle ballate di Virginia Through the Rain e Under the Aurora, tutte le canzoni del nuovo album hanno tenuto botta come un “miracolo di burro” spalmato sulla setlist.
Sui pezzi storici, coi quali invece i fan hanno instaurato un legame viscerale, le cose si sono fatte un po’ più complicate e sfidanti. Ma alla fine quando hai pezzi indistruttibili come Hard Candy, Omaha e Colorblind puoi farci quasi quello che vuoi. In oltre 30 anni di carriera i Crows hanno accumulato una lunga lista di canzoni straordinarie che restano in piedi a prescindere dalle picconate vocali di Duritz o da quanto oggi siano considerati più o meno cool. Canzoni che sono interi universi, piene di nomi di ragazze (Maria, Anna, Amy, Ally, Elisabeth) e di città (Tulsa, Omaha, Nashville, Miami, Baltimora), ma anche e soprattutto di pioggia. Le canzoni dei Crows sono letteralmente stracariche e stracolme di pioggia, sono canzoni fradicie, bagnate, zuppe, alluvionate, così come i loro protagonisti, gente che prende le scarpe ed esce sotto la pioggia, che nuota in un oceano di pioggia, che cammina fra la pioggia, che non riesce a vedere il mattino attraverso la pioggia.
Tra le tante perle, almeno tre i colpi al cuore della serata. Il primo è la lunga esecuzione di Round Here diluita e amalgamata per 10 minuti insieme a Raining in Baltimore: qui siamo oltre la musica, è cinema e teatro insieme, Hollywood e Broadway. Pioggia e lacrime. E vita vera: dentro c’è Duritz che soffre di un disturbo di depersonalizzazione diagnosticato nel 2008, Duritz che soffre di insonnia, Duritz che s’inventa Maria per poter piangere liberamente. Le variazioni si sposano tra loro ed è come riascoltare la tua canzone preferita per la prima volta, attraverso una nuova luce. Il secondo è l’attacco al piano di A Long December per tutto il portato emotivo di speranza che ne consegue e il terzo è l’incipit arrembante di Rain King per le stesse ragioni uguali e contrarie.
Quest’ultime due vengono suonate una dopo l’altra prima dell’encore (affidato a Under the Aurora, Hanginaround e Holiday in Spain). Ma è proprio il finale del primo set a essere più significativo per la storia dei Counting Crows. Anzi, per la precisione la parte finale delle due canzoni, e per essere ancora più precisi lo “yeah” con il quale si concludevano le due versioni in studio. Due emissioni vocali diverse dello stesso suono che racchiudevano l’ascesa e la caduta della band. Quello di Rain King era una sorta di grido al tempo stesso straziante e liberatorio, come un Axl Rose in punto di morte, a suggellare un brano sul potere del processo creativo, ispirato dal romanzo di Saul Bellow, Il re della pioggia. Un unico “yeaaaaah” allungato nello spazio infinito della creatività. A Long December, invece, si concludeva con ben quattro “yeah” smorzati, rallentati e distanziati come se fossero uno l’eco dell’altro. Tra lo “yeah” di Rain King e quello di A Long December era racchiusa la sintesi artistica della band, dal successo esplosivo del primo album alla crisi e caduta del secondo. Ma dal vivo quest’ordine viene invertito: prima la speranza dolorosa di A Long December e poi l’urlo creativo di Rain King. I quattro yeah “miagolanti” alla fine della ballata dicembrina sono rimasti invariati, mentre quello di Rain King è stato tolto, o meglio, verbalizzato, trasformato da Duritz in un verso, in modo che nessuno possa avanzare più dubbi “del cazzo” sul significato delle sue canzoni. “I am the Rain King”, urla prima di chiudere, sostituendo il famoso “yeaah” con un “well, why don’t you just come in out of the rain?” (“be’, allora perché non entrate a ripararvi dalla pioggia?”).
Il gesto che l’accompagna con la mano è inequivocabile, l’invito a entrare è rivolto a noi: perché nelle canzoni dei Crows – al contrario di quello che diceva un altro Corvo famoso – potrà pure piovere per sempre, ma questo non significa che non ci si possa trovare riparo.








