Travis Scott, il report del concerto a Milano | Rolling Stone Italia
the highest in the room?

Travis Scott: e se il messia della trap fosse un’allucinazione?

In 80 mila sono arrivati agli I-Days a Milano per rendere omaggio al proprio idolo, ma qualcosa non ha funzionato. E non parliamo della pioggia torrenziale

Travis Scott

Travis Scott agli I-Days a Milano

Foto: Elena Di Vincenzo

Piove. Piove tantissimo, senza pausa. Una discesa ininterrotta di acqua che però non può nulla contro gli 80 mila presenti agli I-Days per l’attesissima prima data italiana di Travis Scott. Siamo all’ultimo giorno di un giugno caldissimo, ma le temperature sono crollate sotto i 20 gradi, trasformando l’Ippodromo La Maura in un Glastonbury fangoso e bagnato. E come fossimo a Glasto prodi giovanissimi sfidano il lungo temporale anche a petto nudo: sanno già che non spegnerà il loro fuoco.

Il concerto di Travis Scott, per loro, è stato una visione mistica. Il messia che cammina sulle acque di una Milano d’Albione, donando ai suoi discepoli bisognosi (dopo appena qualche brano invita un ragazzo del pubblico sul palco per regalargli delle scarpe della sua nuova collabo) e portando in omaggio il fuoco – le fiammate infatti sono l’unico escamotage di Travis per colmare una scenografia che più che minimale è inesistente, con dj di supporto a lato, ma stranamente in bella vista (una mitragliatrice di ad lib che disturba la potenziale pulizia prevista sul palco) e tre maxischermi su cui il trapper di Houston viene trasmesso modificato da effetti scenici semplici, ma efficaci, questi davvero molto cool.

Per vedere Travis ci sono tutti: la sua prima data in Italia è l’evento must-see della stagione. Nell’area ospiti girano Tedua, Rondodasosa, Bresh, Capo Plaza (che ha suonato in apertura approfittando dell’occasione per annunciare il suo nuovo album). Tiktoker e influcer. Tuo fratello piccolo, tua sorella un po’ più grande, papà che li controlla, ma anche lo zio che fa il grafico a Milano e tutta una certa scena artistica. A dispetto di quanto si potrebbe pensare, non è un concerto solo per ragazzini della Gen Z, l’immaginario di Travis ha portato sotto questo temporale un pubblico trasversale che tenderà a dividersi naturalmente quando all’interno delle differenti aree partiranno i wall of death o i pogo selvaggi ovvero tutto quel materiale che la trap ha saccheggiato da metal e punk per superare la crisi estetica del rap e parlare ad una generazione ripulita da confini ed etichette. Sotto palco, in transenna, c’è il fratellino di un caro amico. Quando riemerge distrutto dalla battaglia (perché quello è stato per loro) gli chiedo come è andata nel pogo. Mi risponde: «Cos’è il pogo?».

Foto: Fabio Izzo

Ma cosa è successo sul palco, vi chiederete. Be’, in realtà ben poco (perché anche il tempo sul palco è stato poco, appena un’ora): c’è più show tra il pubblico («È stato uno dei concerti più belli della mia vita», dice il trapper al microfono) che on stage. Certo, Travis ha una presenza – e tutto un suo corredo di movenze – ipnotica per i più giovani, ma il suo approccio al microfono è molto rude, in qualche senso anche esasperato. Disperato. Se l’Auto-Tune del frap rap di Travis è pensato per portarci alla trascendenza orgasmica – per parafrasare Kit Mackintosh – il trapper qui non rispetta le premesse con un approccio alla voce tenuto costantemente in chiave urlata, riducendo così ai minimi gli sbalzi interpretativi che movimentano i suoi brani in studio e che nell’ascolto privato portano l’ascoltatore in un altrove. Per questo la scelta – oramai consueta del genere – di tagliare continuamente le canzoni dopo il primo ritornello risulta controproducente. Così non si entra mai davvero nel mood, non si entra mai davvero nelle atmosfere. A tratti si viba – come dicono qui – ma le continue interruzioni sono un’infilata di coiti interrotti.

L’aura di Travis è sicuramente più potente del Travis performer. E il motivo per cui siamo qua è anche perché l’immagine di Travis è molto più grande della sua stessa musica. Moda, drop, collabo, festival, Fortnite, Astroworld. Parliamo di un artista che si permette tour da 80 mila persone ancor prima del quarto album (il live sembra infatti un modo di tergiversare in attesa dell’uscita di Utopia, prevista per fine mese), esattamente il doppio – per darvi una proporzione – di quante ne ha portate Kendrick Lamar lo scorso anno. A ricordarci quanto oggi il peso di un artista si misuri sempre più per l’ampiezza e la luminosità dell’universo creato che per i dischi in sé. E su questo Travis è the highest in the room, per davvero.

Per chi è venuto a Milano per idolatrare Travis, questo sarà stato – potenzialmente – il concerto della vita. Travis c’era e ogni apparizione del messia vale di per sé un’esistenza. Per gli altri, diciamo i laici o i simpatizzanti, questo show è stato invece una mezza delusione, soprattutto se soppesato con certe aspettative: sul palco Travis non è ai livelli di Kendrick, né tantomeno a quelli di Tyler, The Creator. In questo frangente non è the highest in the room. Un commento trovato su Instagram riassume splendidamente questo cortocircuito: «Volume basso, cantato 1 ora. Diluvio. Per il resto bello».

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