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The Good The Bad & The Queen dal vivo: Londra brucia, e fanculo alla Brexit


Siamo stati due ore in una bolla. Una bolla bellissima e davvero molto inglese. Racconto della prima data di tre del supergruppo multigenerazionale composto da Damon Albarn, Tony Allen, Simon Song e Paul Simonon
The Good The Bad & The Queen. Da sinistra: Tony Allen, Damon Albarn, Simon Tong, Paul Simonon. Foto di Pennie Smith

The Good The Bad & The Queen. Da sinistra: Tony Allen, Damon Albarn, Simon Tong, Paul Simonon. Foto di Pennie Smith



L’ingresso dell’EartH (Evolutionary Arts Hackney) è una porticina compressa tra due ristoranti turchi nel cuore di Dalston, un vero e proprio accesso per una dimensione parallela dove ci si lascia alle spalle una piovosa serata di un normale martedì e si entra in un teatro dalle pareti scrostate, i gradoni di legno e un’atmosfera, quella sì, davvero magica.
 L’occasione specialissima è la prima londinese di The Good The Bad & The Queen alle prese con il nuovo disco, arrivato a “soli” undici anni di distanza dal suo predecessore, Merrie Land.

Dell’album e del suo voler essere un racconto “storico” dell’Inghilterra post-Brexit si è detto e scritto tanto, ma è proprio dal vivo che l’operazione – ehm – culturale messa in piedi da Damon Albarn con Tony Allen, Paul Simonon e Simon Tong si svela in tutta la sua natura. 
In pratica i The Good The Bad & The Queen del 2018 suonano una specie di world music tradizionale inglese. Una definizione che messa giù così fa quasi ridere ma che è perfetta per spiegare l’innesto di culture lontane su un tessuto di partenza che, invece, è 100% britannico.


C’è l’afrobeat, quindi, e ci sono le marcette tradizionali suonate col piffero ma che si scontrano con il basso sempre molto reggae e sempre molto punk di Simonon. Ci sono gli Specials di Ghost Town e le canzoni da pub, i Kinks, gli XTC, ovviamente i Blur ma pure un po’ di Radiohead e di cori da stadio in stile Kop, la musica più nera che c’è e quella più bianca, tutte mischiate insieme e filtrate attraverso il genio melodico di Albarn che, di fatto, scrive sempre la stessa canzone ma la scrive sempre meglio di tutti gli altri.

Da guardare dal vivo sono uno spettacolo: accompagnati sul palco da un quartetto d’archi, un percussionista e un organista, Allen, Simonon, Tong e Albarn sembrano partecipare a quattro show diversi, pur essendo perfettamente in sincrono. Tony Allen suona proprio nel modo in cui ti aspetti, Paul Simonon ti illude che i Clash siano ancora in attività ed ha esattamente lo stesso suono e le stesse movenze di sempre, Simon Tong è psichedelico come negli episodi migliori della carriera dei Verve e rappresenta l’elemento rock, mentre Damon Albarn è al solito caricato a mille, gasa il pubblico e si gasa come se il teatrino da mille posti si fosse trasformato di colpo in Hyde Park.

La scaletta comprende tutto Merrie Land eseguito nello stesso ordine del disco, una pausa in cui la musica di sottofondo è gentilmente offerta dal vivo da un tizio che suona un organo, su basi midi, a bordo palco (idea stupenda, e lui idolo assoluto), e poi un bis coi pezzi migliori del primo album.

Promettono di tornare presto, in realtà lo faranno già domani e dopodomani, si annunciano come protagonisti di numerosi festival estivi e ci lasciano andare via, di nuovo sotto la pioggia, di nuovo pronti a infilarci nel primo ristorante turco a tiro, come se niente di tutto questo fosse reale.
 Siamo stati due ore in una bolla. Una bolla bellissima e davvero molto inglese, ma di quell’Inghilterra che ha fondato sul mix di culture diverse la sua essenza e non quella che di nuovo cerca di rinchiudersi nel solco isolano di una tradizione cieca.

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