Ci hanno messo più di cinquant’anni, gli Sparks, ad arrivare in Italia. Ventotto album e centinaia di esibizioni in tutto il mondo e i fratelli Mael non avevano mai suonato nel nostro Paese, fatta eccezione per alcuni concerti legati all’album pubblicato nel 2015 assieme ai Franz Ferdinand. «Un errore durato troppi decenni», ci aveva detto Ron Mael qualche settimana fa, intervistato a proposito di Mad!, il nuovo album della band.
In termini numerici non è che il pubblico abbia risposto alla grandissima: il Teatro degli Arcimboldi, dove ieri sera era in programma l’unica data italiana, presentava un gran numero di poltrone vuote. Tanto che saggiamente gli organizzatori hanno deciso di far scendere in platea tutti i possessori dei biglietti di galleria, e anche così davanti al palco c’erano diversi posti liberi.
Questo però non ha spento né l’entusiasmo del pubblico per un gruppo di culto se mai ce n’è uno, né la verve di un frontman come Russell Mael, che a 77 anni (ma a guardarlo sul palco potrebbe averne 44) si è mosso su e giù per tutta la durata del concerto, trascinandosi dietro la macchina chiamata Sparks. Un frullatore in cui entrano Bowie, Queen, Roxy Music, ABBA, Human League e Soft Cell, le chitarre e il vaudeville, il cabaret e l’elettronica, e ci fermiamo qui altrimenti finiamo lo spazio, e dal quale esce una bevanda che non ricorda niente di già provato. «L’unico caso di band che non assomiglia a nessuno», ha scritto nei giorni scorsi su queste pagine Enrico Ruggeri, fan ieri sera assente perché impegnato con i propri, di concerti.
Dal vivo Russell è la componente rock, il classico frontman incaricato di stabilire un contatto con il pubblico. Ron invece (80 anni da compiere a giorni) siede dietro la sua tastiera, sguardo fisso in avanti e polsi che fanno su e giù mentre le mani sembrano restare immobili. Con lo humour espresso dal suo particolarissimo linguaggio del corpo, ancora più del fratello caratterizza una band che ha nei giovani componenti della formazione classica (due chitarre-basso-batteria) degli abilissimi comprimari, visivamente poco più che sagome alle spalle dei fondatori, e incaricati di tirare fuori la musica «asciutta e insieme roboante» (sempre Ruggeri dixit) degli Sparks.
Russell è un cantante coi fiocchi, sia quando gli serve un po’ di potenza sia quando snocciola pezzi di bravura in falsetto. Non ha nemmeno l’asta del microfono, perché tanto non sta fermo mai. È vero che sul palco si muove solo lui, ma si muove per tutti, anche per il pubblico costretto per metà concerto a stare seduto sulle pur comodissime poltrone degli Arcimboldi, fino al liberi tutti chiamato in parte dal cantante. C’è da chiedersi, a questo proposito, come mai capiti spesso che concerti di stampo rock come questo vengano organizzati in luoghi con soli posti a sedere. L’istinto ad alzarsi e ballare è più che naturale, solo che in questo modo si disturba, e non poco, chi preferirebbe rimanere seduto nel posto per il quale ha pagato.
«Questo è un pezzo che abbiamo fatto con un vostro connazionale: Giorgio Moroder», dice Russell presentando Academy Award Performance, canzone del 1979 contenuta in No. 1 in Heaven, album realizzato assieme al produttore italiano e ieri secondo classificato quanto a brani presenti in scaletta. Il primo è invece Mad!, il disco appena uscito, a testimonianza del fatto che i Mael non sono qui per fare gli Sparks di ieri (anche se non sono mancati classici come This Town Ain’t Big Enough for Both of Us e When Do I Get To Sing “My Way”), ma quelli di oggi. Oggi che Ron scrive ancora di zainetti di ragazzine che si allontanano nel sole californiano lasciando il loro innamorato a sfogliare la margherita.
«Speriamo di rivederci molto presto» dice Russell salutando alla fine del lungo applauso di un pubblico che, anche se poco numeroso, ha fatto sentire il proprio entusiasmo per tutta la durata del concerto. Nonostante l’anagrafe, gli Sparks insomma guardano avanti. Sia benedetta la loro mamma Miriam, che non solo tirò su due bimbi di 8 e 11 anni orfani di padre, ma gli fece pure prendere lezioni di piano e soprattutto li mise in auto per portarli a vedere i Beatles alla Convention Hall di Las Vegas. Difficile immaginare un’esperienza più formativa e unificante di quella.
