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Siouxsie a Milano, zitti e buoni di fronte alla sacerdotessa degli esclusi

«Muti e ascoltate» ha detto ieri sera l’icona dark al pubblico adorante. Più che un concerto, un’apparizione. Niente foto, né video, però, e nemmeno ‘Hong Kong Garden’. Accontentarsi è stato facile

Foto: Stefano Masselli

A Milano, fino ai primi anni 2000, in zona colonne di San Lorenzo e dintorni sembrava di stare a Camden Town. Nel distretto elettivo della scena punk-metal locale era facile imbattersi in qualcuno con addosso una t-shirt di Siouxsie Sioux. Ricordo nitidamente una ragazza, poco più che ventenne e bellissima, che sulla parte posteriore del chiodo in denim aveva applicato una stampa della regina del goth, o come si diceva in Italia, del dark. Si respirava ancora un po’ di quell’aria ribelle e nostalgica ieri sera fuori dal Teatro Arcimboldi a pochi minuti dall’inizio del concerto sold out che ha visto Susan Janet Ballion, in arte Siouxsie Sioux, di nuovo on stage dopo quindici anni di assenza dai palchi italiani.

Dopo i video amatoriali delle precedenti esibizioni diffusi in rete negli ultimi giorni c’è fermento tra i fan che si interrogano su quale sia il look prescelto per la tappa milanese del tour. Prima ancora che il sipario si apra una voce fuori campo smorza inaspettatamente gli animi comandando ai presenti di non registrare video e di non fare foto. Una richiesta dell’artista presumibilmente, sadica al punto giusto per un pubblico di adepti accorso anche per portarsi a casa il fotogramma di un momento memorabile.

In sala cala il buio, la scena si apre, al centro appare lei, Siouxsie, di spalle, avvolta in una tonaca argenta, che illumina lo spazio circostante rifrangendo la luce dell’occhio di bue. Niente tacchi a stiletto né stivali, ai piedi un paio di sneaker per comodità ma comunque en pendant. Giù il cappuccio lentamente sulle note di Night Shift che dà inizio allo show. Pelle diafana, molto kajal sugli occhi, sopracciglia ben marcate per riallacciare i fili con quella connotazione stilistica che ha reso iconico il suo volto nel mondo. La voce non tradisce le aspettative, fiera, stentorea, angosciante, ricalca con impetuosità i versi di canzoni che hanno scritto pagine importanti della scena dark wave e post punk mondiale. È il momento di Arabian Knights, critica al colonialismo, ai sistemi oppressivi orientali e alla sottomissione delle donne che a distanza di quarant’anni (il singolo uscì nel 1981) affonda ancora molto bene i suoi colpi come la lama di un pugnale.

Foto: Stefano Masselli

In sala inizia un fastidioso tran tran, le maschere teatrali fanno su è giù in platea rimproverando con tanto di torcia alla mano chiunque provi goffamente a sfoderare lo smartphone per riprendere il momento. Mentre cerchiamo di farcene una ragione, scivolano una dopo l’altra Here Comes the Day, Kiss Them for Me e Dear Prudence, storica cover beatlesiana. Sullo sfondo si alternano video-proiezioni dal sapore un po’ troppo contemporaneo che non rendono giustizia ai testi. Il leitmotiv è quello della danza, tra scarpette da punta, ballerine e piroette sincopate. Una danza che Siouxsie replica sul palcoscenico, ancheggiando e inscenando movenze ipnotiche. Sorprendente l’inserimento in scaletta di But Not Them, figlia del side poject Creatures messo in piedi nel 1981 con Budgie, batterista dei Banshees. Un sabba incalzante costruito solo sulle percussioni, in totale assenza di chitarre che, rievocando la caccia alle streghe, conduce la cantante ad autocelebrarsi sacerdotessa degli esclusi. Un’etichetta come tante altre, ma coerente con il suo personaggio figlio della miglior tradizione esoterica britannica.

A fare da controaltare al pezzo le chitarre taglienti di Sin in My Heart e subito dopo di Christine. Il pubblico in sala è entusiasta, c’è chi chiama la cantante per nome a gran voce e chi le urla qualcosa dalla platea, ma in risposta ottiene uno «don’t talk, shut up, listen». Del resto, per quanto moderna e glamour possa diventare una ragazza post punk non rinuncerebbe mai alle proprie spigolosità.

Con Happy House e Into a Swan si concludono i primi 60 minuti di concerto. Una brevissima pausa per riprendere fiato e poi l’encore con due pietre miliari del rock: l’inno generazionale Spellbound e The Passenger di Iggy Pop. Delusione per l’assenza in scaletta di Peek-A-Boo e di Hong Kong Garden, eseguite invece in altre tappe del tour europeo. Poco a fuoco anche la scelta di chiudere con una cover e non con un brano del repertorio, tutte pecche superabili grazie al carico emotivo portato sul palco.

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