Sì, i Duran Duran ce la fanno: la recensione del concerto al Circo Massimo | Rolling Stone Italia
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Sì, i Duran Duran ce la fanno: la recensione del concerto al Circo Massimo

La voce di Simon Le Bon tiene (non come a Sanremo) e le hit trasformano gli spettatori non giovanissimi in una congrega di invasati. Si replica stasera sempre a Roma

Sì, i Duran Duran ce la fanno: la recensione del concerto al Circo Massimo

I Duran Duran al Circo Massimo

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L’ultimo passaggio italiano dei Duran Duran al Festival di Sanremo mi aveva lasciato perplesso. Da una parte c’era una band in ottima forma, compatta e ancora freschissima, dall’altra Simon Le Bon mi era parso un po’ spompo, affaticato, con una voce che arrancava nei momenti chiave. La prima serata al Circo Massimo ha spazzato via ogni incertezza: Le Bon ha cantato per quasi due ore con una tenuta vocale sorprendente, trascinando la band in una performance che ha fatto vibrare ogni pietra dell’antico campo romano.

A spazzare via i dubbi è bastata la coppia di canzoni, decisamente antitetiche, scelta per dare inizio alle danze: prima Night Boat, con il suo incedere claustrofobico e inquietante, e poi a bruciapelo The Wild Boys che ha trasformato il Circo Massimo in una congrega di invasati. I video, tra cyberpunk decadente e simbologie misteriche, hanno più volte evocato paradossalmente l’immaginario metal degli Iron Maiden – croci, teschi stilizzati, rovine animate – ma al servizio di un’estetica pop che rimane unica nel suo genere. Curatissimi e mai banali, i visual hanno trasformato il concerto in uno spettacolo totale, tra arte digitale e omaggi alla cultura visiva degli anni ’80 e ’90.

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Notorious, Hungry Like the Wolf, A View to a Kill, Friends of Mine: ogni hit diventa un detonatore, ogni nota un richiamo collettivo alla memoria e al movimento. Il pubblico, trasversale per estetica più che per età (decisamente alta), balla e canta senza sosta, in un rito dove il tempo sembra sospeso e dove, almeno per qualche ora, possiamo dimenticare (o quantomeno convincerci di farlo) il disastro della situazione mondiale che stiamo vivendo. Situazione che invece Le Bon ci ricorda in più occasioni, invitando il pubblico a non girarsi dall’altra parte mentre migliaia di civili vengono trucidati.

Il frontman, oggi più maturo ma forse ancora più carismatico, sembra aver trovato negli ultimi anni un nuovo equilibrio vocale. Se la tecnica non è più quella di un tempo, è aumentata invece l’espressività e in molti passaggi – soprattutto nei brani più atmosferici come Come Undone o Ordinary World – si avverte chiara l’influenza di David Bowie. Non è una novità, ma col tempo la lezione bowiana si è fatta sempre più presente, quasi un’eredità spirituale che affiora nel fraseggio, nel controllo delle dinamiche, nella teatralità sottile del frontman britannico.

Bowie, del resto, aleggia su tutto il mondo dei Duran Duran. È stato lui con la sua visione androgina e il suo mix di suono e immagine a gettare le fondamenta di ciò che negli anni ’80 sarebbe diventato il movimento new romantic. La lezione di Bowie, che il gruppo non ha mai nascosto di venerare, è evidente sia nell’estetica che nella costruzione di un universo visivo coerente e in continua evoluzione. Senza Bowie non ci sarebbero stati né Planet Earth, né Rio e forse neanche l’ambizione, così pienamente realizzata in serate come questa, di unire arte, pop e tecnologia.

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Troppo a lungo liquidati come effimeri teen idols, i Duran Duran sono oggi giustamente riconosciuti per ciò che sono: pionieri del suono e dell’immagine, innovatori capaci di unire sonorità e stimoli provenienti da infinite fonti con una visione sempre un passo avanti. Il revisionismo critico degli ultimi decenni li ha restituiti alla storia con il rispetto che meritano.

Ottime anche le cover provenienti da Thank You del 1995 e dall’ultimo Danse Macabre. Se White Lines suona ormai come un loro brano, Evil Woman degli E.L.O. è una bella riscoperta, mentre Psycho Killer (suonata insieme a Girls on Film, ma senza Victoria) si dimostra ancora molto più convincente dal vivo che in studio, con John Taylor al basso a tessere groove ossessivi e Le Bon a muoversi tra teatralità e tensione. È stata la prova di come i Duran Duran non siano solo custodi del loro repertorio, ma anche artisti capaci di reinventare e omaggiare i propri eroi con intelligenza. Dopo una brevissima pausa, la band torna per gli encore con Save a Prayer e Rio. Il gruppo sorride sornione e compiaciuto: Roma non ha semplicemente ospitato i Duran Duran. Roma è stata conquistata.

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