Sfera Ebbasta dal vivo è un po’ America e un po’ provincia italiana | Rolling Stone Italia
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Sfera Ebbasta dal vivo è un po’ America e un po’ provincia italiana

Nello show di ieri sera al Forum di Assago, in linea con le sue ambizioni internazionali Sfera s’è tolto di dosso l’immagine di trapper per tutti ed è un bene. Peccato per certe parti col pilota automatico

Sfera Ebbasta dal vivo è un po’ America e un po’ provincia italiana

Sfera Ebbasta al Forum

Foto: Lorenzo Villa

«Anvedi Sfera, quanto è cresciuto»: la primissima parte del concerto la passi pressapoco così, con questo pensiero che ti rimbalza per la testa. Dopo mille rinvii causa Covid finalmente il tour legato a Famoso – il disco che doveva essere quello della consacrazione planetaria, ma che in realtà ha funzionato un po’ meh anche in Italia – trova il modo di salpare, e nel frattempo si è irrobustito anche di qualche canzone dell’EP Italiano, un inverosimile e discutibile tentativo di totocotugnizzare la trap in chiave patriottico-cartolinacea (ma con delle produzioni da paura, di livello internazionale: però anche in questo caso, per la release, un bel meh).

Quindi sì: sei arrivato al Forum – sold out da tempo, come lo sono sold out altre due date previste nella più grande arena italiana indoor per concerti, e altre varie date per la Penisola – un po’ scettico. Ma già l’ingresso in campo, pardon, in arena fatto stile ring, ovvero da un lato della platea accompagnato da secondi e security per finire, fendendo la folla e i fan, in un palco a quadrato posizionato al centro di essa, ti piace un sacco. Funziona. Così come funziona il fatto di avere una specie di SW1 (ma Sfera conoscerà i Public Enemy, li avrà citati apposta?) a fargli da corona on stage, non coi mitra come nel caso di Flavor Flav e Chuck D, ma comunque coi passamontagna.

Sfera stesso poi pare più convinto, cresciuto, quadrato, efficace, togliendosi di dosso l’immagine un po’ zuccherosa di trapper per grandi e piccini – lo stesso zucchero che ha affossato negli ultimi anni Ghali per inciso, e chissà se e quando si riprenderà. Lo cogli in Sfera dal modo di muoversi, da come è vestito, dai visual alle sue spalle (non telefonati, didascalici e caramellosi, ma ricercati e ben fatti); e quando poi lo stage design fa il suo, con passerelle volanti che che calano dall’alto e collegano il palco-ring centrale al palco vero, hai di fronte una spazialità che è studiata davvero bene bene. Se sei fan ti vengono gli «ooooh» di meraviglia; se sei un addetto al settore e uno che guarda con più disincanto al concerto, non puoi che dirti «accidenti, davvero ben fatto».

Noti poi una cosa, e questo in realtà già lo sapevi ma è bello avere una conferma: mentre i trapper della nuova ondata sono spesso e volentieri dei cani rognosi come capacità tecnica al microfono, dei tacchini bercianti con scarso senso del tempo, Sfera strappa invece la sufficienza – e strappando la sufficienza oggi sembra, al confronto, un fenomeno, uno bravissimo. Sì, in più parti c’è la cara vecchia traccia vocale pre-registrata a tenere in piedi la faccenda o almeno ad irrobustirla, certo, ma non se ne abusa. Onore al merito. Anche se va detto che ormai ci si accontenta di poco, anche se Fibra e Marra hanno (ri)alzato l’asticella.

Foto: Lorenzo Villa

Fino a qui tutto bene? Sì. Tranne una cosa. Ed è lampante, ‘sta cosa, quando finisce la prima infornata di brani presa da Famoso e si inizia invece ad attingere da Rockstar in giù, andando a ritroso nel repertorio: il boato del pubblico letteralmente si quintuplica, andando coi pezzi vecchi. Lì cioè dove Bottiglie Privè (che sarebbe pur sempre il singolo apripista dell’ultimo LP Famoso, non un brano qualunque) è accolto con educata cordialità, la successiva Tran Tran – che segna l’inizio della rivisitazione del back catalogue sferoso, dopo le prime tracce prese dall’ultima release sulla lunga distanza – fa capire quanto Sfera sia amato e adorato dai presenti. Oh: da un lato ci sta che i vecchi brani siano accolti col delirio e i nuovi un po’ meno, in tutti i tour succede (ma non tutti i tour accadono due anni dopo l’uscita dell’ultimo album, quindi il tempo per digerire le nuove hit ci sarebbe…); dall’altro però Famoso poteva e doveva essere la mega-giga-consacreazione di Sfera – con tanto di megainvestimenti della Universal e truchettini marketing come la pubblicità a Times Square – e invece non lo è stata, o non lo è stata abbastanza. Non lo è stata abbastanza rispetto agli investimenti e alle ambizioni, sì; e oggi, per un artista urban gli investimenti e le ambizioni sono tutto, di sicuro sono molto di più dell’amore per l’arte e per la musica. Non fosse così, non parlerebbero di numeri con così tanta insistenza e con così tanta passione manco fossero commercialisti o faccendieri sulla rotta Milano-Lugano.

Si vede che questa cosa della mancata consacrazione commerciale globale Gionata Boschetti un po’ la soffre, perché dopo una partenza così convincente e sotto molti punti di vista “nuova” andando avanti c’è invece un progressivo ripiegare sulla coperta di Linus del già fatto, già visto e prevedibile. Vale per i visual, che da interessanti diventano sempre più didascalici e telefonati (sembra quasi di sentire un Luttazzi che dice sarcastico «i video saranno semplificati per venire incontro alle vostre capacità mentali»); vale per l’abbigliamento di Sfera dopo il cambio d’abito; vale per l’uso della danza, che all’inizio è particolare e suggestivo, con una ballerina unica che a sorpresa sale sul grande palco posteriore in elegante controluce, mentre dopo sale un intero corpo di ballo che, per carità, balla bene, ma per abbigliamento e coreografie sembra un saggio di fine anno di un corso di danza hip hop di provincia (per chi non lo sapesse: “danza hip hop” e “hip hop” c’entrano gran poco l’uno con l’altro). Insomma: se proprio vogliamo buttarla sul piano dello spettacolo, come fanno gli americani da tempo, si esce abbastanza con le ossa rotte. Si torna provincia.

Dopo la curiosità iniziale sulle scelte sceniche e stilistiche più coraggiose e taglienti del previsto, con la progressiva restaurazione verso i lidi sicuri si va avanti un po’ col pilota automatico: come detto, la gente è appunto in visibilio per i pezzi vecchi e non per i nuovi (il picco ad esempio lo si tocca con Visiera a becco, che è del 2016, praticamente un’altra era), a tenere alta la tensione ci sono invece – come prevedibile, soprattutto quando si sta a Milano – le ospitate: applausometro alto per Blanco (Mi fai impazzire), altissimo per Lazza (Siri), alto per DrefGold (che ha però il vantaggio competitivo di apparire sull’amaterrima Sciroppo), altino per Rkomi (non impeccabile nell’eseguire Nuovo range), blando per gli ospiti stranieri (Feid, che si prende pure una parte dello show da solo, e da molti invece che un climax prestigioso viene preso come un momento pausa per andare al bagno o al bar, e Rvssian). Sfera fa il suo lavoro onestamente, non perde un colpo, come già detto si fa aiutare dalle tracce vocali pre-registrate stando entro la soglia della decenza, non ne abusa. Mancano però le sorprese vere, le idee particolari, quelle che ti fanno tornare a casa facendoti pensare che sì, Sfera e il suo team sono davvero qualcosa con una marcia in più, qualcosa pronto a prendersi il mondo (o almeno l’Italia).

Foto: Lorenzo Villa

In questo modo e con queste sensazioni si arriva alla fine del concerto, dopo una cavalcata piuttosto lunga (una trentina di pezzi, oltre 90 minuti di concerto: bravo). E qui accade davvero qualcosa di incomprensibile. La chiusura è costruita veramente in modo schizofrenico e approssimativo: c’è una parte dance un po’ fuori contesto che serve, immaginiamo, come omaggio al corpo di ballo (sui cui limiti ci siamo già espressi, ma che comunque fa il suo); e poi ci sono Pablo e Italiano con Rvssian sul palco. Qualcosa non funziona: perché quando finisce Italiano, nonostante il profluvio di bandieroni agitati e visual kitsch durante tutto il brano ti sembra che manchi qualcosa, che manchi il gran finale. Noi sappiamo che Italiano è l’ultimo pezzo, il pubblico no; infatti quest’ultimo resta tranquillamente seduto al suo posto, in attesa che il gran finale arrivi davvero. In modo impietoso vengono invece subito accese le luci e fatta partire la musica di sottofondo, per far capire che ehi, è ora di levare le tende, e pure in fretta, ricacciando in gola il coretto «Se non metti l’ultimo…» che nel frattempo era partito dai più entusiasti (pochi: perché quasi tutti avevano davvero la sensazione che no, il concerto non poteva finire lì, non scherziamo).

Giudizio finale? Sfera ha fatto le cose a modo, non gli si può imputare nessuna critica particolare. Se non quella di aver fatto intravedere una maturazione e una evoluzione che poi, invece, non è arrivata, rifugiandosi nel già collaudato, minimizzando i rischi. D’altro è proprio Sfera che deve essere così: la comunicazione col pubblico è ridotta all’osso e corre solo sui soliti luoghi comuni da concerto. Nessuna improvvisazione, nessuno scambio di battute, nessun momento parlato che stimoli un dialogo o un ragionamento. Italiano per dire è partita esattamente quando arrivavano i primi exit poll delle ultime votazioni, con l’Italia che svolta a destra come non mai con un partito post fascista: poteva essere l’occasione per dire du’ cose, ecco. Non per forza contro la Meloni, sia chiaro, è ipocrita obbligare gli artisti a schierarsi e sbaglia dannatamente chi lo fa; però ecco, un tempo chi faceva rap al microfono commentava l’attualità stando sul pezzo e schierandosi; oggi, commenta il suo profilo e la sua sete (o paranoia) di successo. Molto pop, tutto questo, molto safe. E molto prevedibile. Il pubblico è contento. Ha cantato tutto il concerto. Ma in cuor suo, sa di non aver passato una serata indimenticabile, una serata unica e da ricordare. Però i concerti sono quasi tutti sold out, e allora: dove sta il problema?

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