Se pensate che in Italia i biglietti siano cari, non siete mai stati a un concerto di Springsteen a L.A. | Rolling Stone Italia
Aspettando San Siro

Se pensate che in Italia i biglietti siano cari, non siete mai stati a un concerto di Springsteen a L.A.

Un giro nell’arena dove Bruce ha portato il tour con la E Street Band: posti costosissimi ma sempre pieni, gioia e lacrime, sandwich a 20 dollari e parcheggi a 80, la tipa che giura che ha fatto ‘Thunder Road’ per lei, il tipo che «quando sto male vado a vedere Springsteen che mi riconcilia con la vita»

Se pensate che in Italia i biglietti siano cari, non siete mai stati a un concerto di Springsteen a L.A.

Springsteen e Steven Van Zandt a Los Angeles, aprile 2024

Foto: Enzo Mazzeo

È il giorno dopo e siamo ancora stanchi dopo tre ore e mezza di musica, canti e balli. È la signature di Bruce Springsteen ai concerti: set list di una trentina di canzoni, band di 17 elementi, un’esuberanza e un entusiasmo così sincero da essere contagioso. Nelle due date qui al Kia Forum di Inglewood (che rimpiazzano gli show cancellati nel 2023 quando Springsteen stava male e che anticipano il tour mondiale che toccherà l’Italia) ho visto 20 mila proseliti giungere alla chiesa del Boss e trascorrere assieme la serata, felici nonostante i costi proibitivi dei biglietti che da qualche anno a questa parte sono un problema per la musica nelle arene e negli stadi americani, soprattutto a Los Angeles.

Come i grandi cantastorie, Springsteen entra nelle nostre vite attraverso la musica raccontando la condizione umana. Tutti abbiamo vissuto nostalgia, gioia, ricordi, litigi, riconciliazioni, la perdita di una persona cara. Tutti siamo stati giovani e il racconto di Bruce rimanda a quei tempi, a quegli amori, a quei sogni forse mai realizzati. E lo fa in maniera semplice.

Siccome Bruce va capito anche tramite le connessioni umane che lo rendono forse la rock star meno star in circolazione, ecco non una recensione (la trovate a questo link, mentre qui c’è la gallery del concerto), ma un racconto dell’evento: costi, fan, gadget, curiosità… e poi hot dog, tequila shots e chicken sandwich.

Biglietti. Partono da un minimo di 200 dollari, come quello che ho preso io, trovandomi appollaiato come un piccione nel settore cosiddetto nosebleeds. Per arrivare lassù si rischia di morire di infarto tanto ripida e lunga è la salita. Chi possiede uno di questi biglietti non deve fare l’errore di fermarsi subito a bere birra, per non dovere scendere, andare in bagno e risalire. In altri settori, i biglietti raggiungono anche i 3 e 4 mila dollari.

Sono vent’anni che compro biglietti di concerti negli Stati Uniti e mai e poi mai hanno raggiunto prezzi così elevati. Nonostante qualche articolo sulla stampa, nessuno fa nulla, nemmeno Springsteen, ma le arene e gli stadi sono sempre pieni. In Italia, credetemi, avete prezzi decenti, negli Stati Uniti la situazione è fuori controllo. Comunque, eccomi col biglietto in mano che scendo dalla macchina di mia moglie che ci accompagna (insieme al fotografo di Rolling Enzo Mazzeo). Lo dico perché oltre al biglietto di ingresso, per parcheggiare ci vogliono minimo 80 dollari e addirittura 150 se vuoi un express parking.

Set list. È piuttosto corposa, aspettatevela tale anche per i concerti europei. Oltre alle hit più popolari (Born to Run, Hungry Heart, Badlands, eccetera), Springsteen ha voluto dedicato come di consueto Last Man Standing a George Theiss dei Castiles, la sua prima rock band, morto nel 2018 a causa di un cancro ai polmoni. Ha ricordato quei momenti, il fatto che nessuno sapesse suonare, il prestito di 60 dollari avuto dalla madre affinché potesse comprare la prima chitarra Kent. Ha concluso esortando la gente e non evitare il dolore, perché «il dolore è il prezzo da pagare se si vuole amare». I 20 mila presenti erano tutti in lacrime, me compreso. La sorpresa è stata la presenza di un magnifico Tom Morello (Rage Against the Machine) durante American Skin (41 Shots) cantata come se fosse una ballad americana-irlandese e The Ghost of Tom Joad.

Merch. In vendita magliette e felpe dai 50 dollari in su, cappellini (30 dollari), patches (20), poster (30) e cazzilli vari. Meglio andare sul suo sito ufficiale di Bruce. Hot dog a 12 dollari, chicken sandwich a 20, birre tra i 10 e i 15, acqua a 9 dollari, tequila shots a 7/8. Al momento di pagare, gli inservienti forti del casino prendono le carte di credito, digitano il totale aggiungendo automaticamente un 15% di mancia, per poi dire al cliente «basta che appoggi la carta». Con me non ha funzionato. 

Foto: Enzo Mazzeo

Fan. Mentre si parla con loro, nessuno, io compreso, riesce a trattenere le lacrime, indice di amore vero verso Springsteen. Sono esattamente come me li aspettavo: jeans e t-shirt, camice di flanella, boots e chiodo, un buon 70% sui 50 anni in su, mariti e mogli, biker e mamacitas, padri e figli (per la voglia di colmare un rapporto con la musica di un tempo). Molti sono in là con l’età, sono tutti belli, veri, molto diversi dalle folle di fan europei, qui c’è lo zoccolo duro del popolo americano, quello che ama Neil Young. Scopriamo per esempio che Cheryl, 61 anni di L.A., s’è fatta ben 65 concerti di Springsteen attraversando in lungo e in largo l’America, il primo in Florida, canzone preferita Cadillac Ranch. Dolores, 52 anni, è dell’Ohio, ricorda di aver visto l’ultimo concerto di Bruce nel 1988. Giura che Thunder Road era dedicata a lei e che le canzoni di Bruce sono la colonna sonora della sua vita.

O’Neil è un irlandese americano di Boston di 72 anni, ha visto 46 concerti (il primo al The River Tour al Madison Square Garden) e ci tiene a ricordare che l’asteroide 23990 è stato rinominato Springsteen. Kirsten e Bill si sono conosciuti al Magic Tour del 2007 a San Francisco, hanno visto 42 concerti, Born to Run è stato l’album sia del loro matrimonio che del loro divorzio. William Sr piange quando mi racconta di aver visto Springsteen per la prima volta al Philadelphia Spectrum il giorno dopo l’omicidio di John Lennon. «Ho gusti musicali diversi, non volevo neanche andarci. Da allora l’ho visto 51 volte, i miei gusti sono ancora diversi, ma quando sto male vado da Bruce che mi riconcilia con la vita».

Poi Guglielmo, italianissimo, chef di Los Angeles al suo primo concerto, un niente se paragonato ai 20 di Daniela, milanese habituée del pit e di Michele da Brescia che l’ha visto la prima volta a Padova e poi a Milano, Roma, Firenze, in Inghilterra e in Irlanda, «un amore sbocciato con The River».

Pit. È il luogo in cui si trova la maggior parte dei superfan, quelli che hanno viaggiato a lungo per vedere il proprio eroe e non lo faranno mai seduti o lontani dal palco. I pit di Bruce sono leggendari, proprio perché tutti si aspettano un’interazione con lui a partire dal famoso video di Dancing in the Dark in cui invita una fan (interpretata da Courteney Cox) a salire sul palco e ballare con lui, azione ripetuta per anni a venire. L’altra sera c’era Sherry con una proposta di matrimonio. Bruce ha sorriso e indicato la fede al dito. Qualche settimana fa a San Diego un fan ha chiesto una carezza al cane malato di cancro ed è stato accontentato, a San Francisco un ragazzo ha fatto firmare a Springsteen la giustificazione per l’assenza a scuola. Matthias, 35enne austriaco che è stato una quarantina di volte nel pit, mi racconta  che la coda a Città del Capo è molto meno brutale che in Europa, dove i fan più accaniti arrivano fino a tre giorni prima di uno show per assicurarsi un posto davanti. Secondo lui, i fan più estremi sono in Spagna e Italia. Con loro ho riso, gioito e soprattutto pianto, e ho notato come ad Inglewood, culla della cultura nera americana di Los Angeles, patria di Crips e dei Bloods, a ballare Dancing in the Dark erano 20 mila bianchi. Non c’era un solo afroamericano fra il pubblico, gli unici presenti al Forum erano i lavoratori.

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