Attraversando il moquettato foyer del Teatro Arcimboldi con i poster degli spettacoli della stagione, dal filosofo Umberto Galimberti a Massimo Ranieri passando per il Rocky Horror Show e Cats, il pensiero andava alle decine di concerti fotocopia visti negli ultimi tre anni nei palazzetti, quelli della scena pop/trap/rap esplosa nel 2016 e ancora in cerca di un’identità nonostante il successo di pubblico e numeri. Sarà Rkomi a trasformare questo teatro nell’ennesimo Forum, a ranghi ridotti e poltroncine di velluto? O al contrario saranno gli Arcimboldi a regalare al pubblico una nuova via per fruire di una musica che, fuori da Spotify e YouTube, è ancora in cerca di una collocazione precisa?
Tralasciando le polemiche sullo “sbigliettamento” e i sold out, veri e o falsi che siano, l’impressione alla fine del live è che Mirko abbia lavorato sodo per creare un precedente che possa aprire nuove opportunità ai suoi colleghi, mettendo al centro le parole della sua musica più che il personaggio Rkomi. La scenografia minimale – una grande scala metafora di un percorso, quello artistico, mai in pianura e una gabbia, altra metafora più intima fatta di privazioni e aspettative – e una band funk rock mai sovrastante, arricchita dal soul delle coriste, costringono il cantante a mettersi a nudo – anche qui, solo metaforicamente, ricordando le sue passate esibizioni scamiciate – incorniciando le sue canzoni in una narrazione orizzontale, con tanto di monologhi tra un pezzo e l’altro, che dia senso al tutto: la strada, i monolocali di Calvairate e il palcoscenico sono le tappe di un percorso emotivo che Rkomi sembra aver metabolizzato e analizzato a lungo, dalla fame dei primi due dischi all’Ossigeno (titolo di un suo famoso brano) fino a casa, di cui il teatro è l’ennesima metafora.
Foto: Alessandro Bremec
Sul palco parla del privilegio che ha avuto di occuparsi dei suoi conflitti interni quando là fuori i conflitti sono di ben altro tipo e alla fine del concerto, durante un breve incontro con la stampa, racconta di aver lavorato ai monologhi – anche quelli recitati da due attrici sotto palco – ispirandosi a un testo di Massimo Recalcati mentre sta studiando lo standing di Trent Renzor e Dave Gahan per cercare di dare al pubblico intensità e forza anche senza dimenarsi e ballare troppo. Decrescendo per crescere: parafrasando la hit sanremese, è così che possiamo leggere questo nuovo capitolo, sperimentale e coraggioso, a tratti anche acerbo – ci sta – del cantante.
Foto: Alessandro Bremec
Ma la vera sorpresa di questa prima teatrale non è tanto la resa dei suoi pezzi pop, già digeriti sul ben più noto palco dell’Ariston, ma di quelli più rappati, sghembi, a flusso di coscienza, che hanno distinto fin dall’inizio Rkomi dagli altri colleghi: Solletico, Io in terra, Apnea (in una bellissima versione piano e voce) agli Arcimboldi trasformano il rap jazzato in una sorta di gramelot di Dario Fo con l’autotune, regalando al pubblico qualcosa di inedito. Poi ci sono le hit, lui che scende in mezzo al pubblico, abbracci, strette di mano, o lui che sale sul balcone che divide la galleria dalla platea, emozionando i fan. Ma al centro di Rkomi e di Mirko rimane sempre la sua penna, e sarà sempre quella a indicargli la strada, non importa che passi da uno stadio o da un teatro, perché con questo concerto ha dimostrato di saperla scrivere da solo… la sua storia.
