“Hai mai respirato una frequenza?”. Non è una domanda a trabocchetto, ma uno dei tanti slogan dei Sunn O))) riportato su una delle loro magliette. Una manifestazione d’intenti dei loro concerti, con cui puntano a farti percepire la fisicità del suono, riempiendone l’aria a tal punto da fartelo respirare. Si tratta naturalmente di una provocazione: si sa che Stephen O’Malley e Greg Anderson, sulla scena da oltre vent’anni, eccellono nello sloganismo e nel simbolismo, tanto da farne propaganda efficace, utilizzando la loro particolare ossessione per il suono e per il volume come strumento di branding. Il loro nome, per chi non lo sapesse, deriva da una marca di amplificatori anni ’70, i Sunn appunto, e il logo “O)))”. Su YouTube c’è tutta una serie di video in cui O’Malley spiega nel dettaglio il concept dietro al design, agli slogan e ai simboli del loro merchandising, tra cui appunto la famosa maglia sul “respiro della frequenza”, stampata in occasione della loro esibizione al Barbican di Londra nel 2017 e in bella vista al banchetto anche ieri sera all’Audiodrone di Moncalieri, Torino.
Ma il loro motto più famoso rimane “Il massimo volume produce massimi risultati”, usato anche come incipit della scheda tecnica distribuita ai promoter dei loro concerti e ormai entrata anch’essa a far parte della leggenda: «Lo staff del locale deve essere preparato e a proprio agio con la massimizzazione del volume e delle basse frequenze dell’impianto di amplificazione».
Mentre attendiamo che gli dei del suono facciano il loro ingresso abbiamo l’opportunità di osservare con attenzione l’impressionante muro di amplificatori posizionati sul palco, uno accanto all’altro, a formare un unico monolito gigante che manco 2001: Odissea nello spazio. La loro imponenza e importanza all’interno dello show è tale che potremmo quasi considerarli come un terzo elemento della band. Anche perché non c’è nient’altro oltre a loro e alle due chitarre: niente basso, niente voce, niente batteria. I pezzi dei Sunn O))) hanno davvero poco in comune con le canzoni intese nel senso più tradizionale del termine. Oggi sono riconosciuti come avanguardia sonora, ma in passato sono stati bistrattati. I loro brani, soprattutto all’inizio, erano sostanzialmente delle sculture di suono monolitico con un unico Dio: il drone allo stato brado, nella sua forma più pura e semplice. Come ha scritto il critico musicale Harry Sword nel suo testo sacro sulla musica drone Alla ricerca dell’oblio sonoro, i Sunn erano «puro massimalismo sonoro», «potenza sonora oltre ogni ragione, qualcosa che semplicemente è».
Col tempo il suono del gruppo si è evoluto, aggiungendo sempre nuovi elementi, dal noise di Merzbow alla poesia di Julian Cope; dalla voce inquietante di Attila Csihar dei Mayhem a quella di Malefic degli Xasthur richiusa dentro una bara; dalla produzione rumorosa di Steve Albini al violocello di Hildur Guðnadóttir, la giovane compositrice islandese vincitrice dell’Oscar per la colonna sonora di Joker. Tutti questi ospiti hanno in parte offuscato la vera essenza dei Sunn O))) che nell’ultimo periodo hanno deciso di tornare a esibirsi come Shoshin (初心) Duo, “nella loro forma originale e grezza”. Per questo ieri sera sul palco c’erano solo le due chitarre di Anderson e O’Malley e un muro di suono “dronante” amplificato alla massima potenza.
Le leggende metropolitane sui concerti dei Sunn O))) si sprecano: si dice che le frequenze basse saranno così forti da frantumare le bottiglie del bar, che ci saranno svenimenti, vomito sul pavimento, episodi di trascendenza del corpo, che faremo fatica a mantenere l’equilibrio, che perderemo l’udito e il liquido cerebrale essenziale (?) e poi la mia preferita in assoluto, ovvero che O’Malley e Anderson sfrutteranno il potere della famosa “nota marrone” (avete visto South Park, sì?) e ci faranno cacare addosso tutti quanti. Indipendentemente dal fatto che queste cose siano vere o meno (non lo sono), il solo fatto che se ne parli contribuisce ad alimentare il loro mito ai confini col misticismo, il complottismo e la fantasonica esplorata da Steve Goodman in Guerra sonora. Insomma, l’attesa del concerto dei Sunn è essa stessa il concerto dei Sunn.
Quando finalmente salgono sul palco, incappucciati nelle loro tuniche sacerdotali e avvolti nel fumo incessante, sono a malapena visibili: sembrano uno il doppelgänger dell’altro, due apparizioni ultraterrene nel bel mezzo dell’apocalisse. Quando suonano quello che ci investe non si può spiegare, il volume è così assordante da poter essere sopportato soltanto indossando i tappi per le orecchie, la vibrazione sonora così intensa da far smuovere tutta la sala. Siamo oltre qualsiasi altra cosa possiate aver sentito durante un concerto. È un suono che ti sconquassa le viscere, lo avverti in tutte le parti del corpo, lo senti nel cranio, nel petto, nello stomaco, dietro le gambe, ovunque. Un’esperienza sonora totalizzante e paralizzante, per la quale non c’è una reazione comune, non può esistere una reazione comune per questa roba, ognuno compie il suo viaggio in solitaria tra l’estasi e l’agonia.
Intorno a me vedo volti angosciati che si contorcono in smorfie di dolore e di terrore e altri che si godono il momento in stato di trance ad occhi chiusi, qualcuno sembra pregare, altri meditano, altri ancora come me stanno semplicemente cercando di capire che cosa cazzo sta succedendo al loro corpo. Ogni tanto qualcuno alza un pugno in segno di saluto e rispetto. È il massimo del movimento consentito, O’Malley e Anderson invitano alla stasi, i loro movimenti sono lenti e solenni, non stanno suonando stanno celebrando un rituale. La chitarra è un tramite. Raise the Chalice è il secondo brano in scaletta, per chi riesce a distinguerli.
Mentre ascoltiamo a bocca aperta il suono diventa sempre più viscoso e vivo, un presagio che si avvicina e si allontana con un effetto doppler inquietante. La sensazione è quella di sentire, o meglio, di essere al cospetto di un suono primordiale. E in effetti è proprio così. Ci sono buone probabilità che quello che stiamo ascoltando sia molto simile al suono che l’universo ha emesso dopo il Big Bang. Ma il legame tra il live dei Sunn e il cosmo non finisce qui. Non molto tempo fa, i ricercatori dell’Istituto di Astronomia dell’Università di Cambridge hanno scoperto in un lontano ammasso di galassie noto come Perseo, a 250 milioni di anni luce di distanza dalla terra, quello che descrivono come un buco nero che canta ed emette le onde sonore più basse mai intercettate: una sola nota, il drone di un Si bemolle 57 ottave al di sotto del Do centrale, cioè circa un milione di miliardi di volte più basso del suono più basso udibile dall’orecchio umano, reso poi udibile dalla Nasa. I Sunn recuperano quel suono uscito dal buco nero e ce lo sparano in faccia: i Sunn sembrano aver trovato il suono di un buco nero che piange e urla nello spazio infinito dove nessuno lo può sentire.
Su alcuni soggetti questo suono produce un effetto angosciante, mentre su altri ha un effetto incredibilmente calmante. Il motivo è presto detto: Il drone è anche la nostra prima esperienza uditiva all’interno del ventre materno. L’udito è il primo dei cinque sensi a svilupparsi e i suoni del corpo – come lo scorrere del sangue, il battito del cuore, i gorgoglii dell’apparato digerente – vengono percepiti dal feto in maniera forte e chiara, come l’equivalente di un robot da cucina o di un autolavaggio a sei metri di distanza.
Il drone dei Sunn, quindi, non evoca solo i suoni dell’universo, ma anche quelli del grembo materno. Il concerto dei Sunn O))) è un rito ancestrale inquietante e confortante al tempo stesso, un tributo sacrificato sull’altare del suono, quello della nascita dell’universo e quello della nascita della vita. Forse perché per generare la cosa più luminosa bisogna partire per forza dalla cosa più oscura. O quantomeno dalla più rumorosa.








