Baustelle, la recensione di El Galactico Festival | Rolling Stone Italia
Pecore nere

Ricordi quando al festival dei Baustelle è arrivato Niccolò Contessa e sei svenuto?

El Galactico non è stato solo la festa senza nostalgia per i 25 anni del ‘Sussidiario’, ma anche la celebrazione di un modo di fare e pensare la musica. «Un’alternativa alla ricerca ossessiva del colpo grosso»

Ricordi quando al festival dei Baustelle è arrivato Niccolò Contessa e sei svenuto?

Niccolò Contessa coi Baustelle a El Galactico

Foto: Simone Biavati

Pablo mi aveva assicurato che – stando a Keynes – passati i 25 anni di età il processo di formazione dell’opinione dell’individuo si conclude. Diventa più difficile cambiare idea: sai già che quello a cui credi e quello a cui no. Quello che ti piace, e quello che ti piace di meno. Io avevo 26 anni quando ho scoperto che ormai era tardi per cambiare idea. Pablo mi stava spiegando perché Milano è la metafora dell’amore, e non capiva perché io non stessi comprando i biglietti per andare a sentire i Baustelle all’Alcatraz. Era incredulo, e io provavo a spiegargli che semplicemente erano andati sold out, ma lui sosteneva che ormai era andata, avevo quasi 27 anni, non avevo mai sentito live i Baustelle, non mi piacevano evidentemente abbastanza e la maledizione di Keynes ormai aveva colpito. Era andata così, e nessuno poteva farci niente. Rassegnato, rabbioso quanto il cane di Tolstoj, se n’era andato a prendere il sole a NoLo, e non abbiamo più parlato di questa faccenda.

I Baustelle sono 25 anni che fanno le cose a modo loro. E non sembrano aver mai cambiato idea, né sembrano avere l’intenzione di farlo nel futuro prossimo. L’hanno spiegato, messo in scena sotto gli occhi di tutti, dimostrato, fatto vivere e vibrare in una 48 ore a Firenze, all’Anfiteatro del Parco delle Cascine. El Galactico, due giornate di festival vero, con una direzione artistica precisa, chiara, gestita e curata nel dettaglio dalla band. A celebrare senza nostalgia il quarto di secolo dall’uscita di Sussidiario illustrato della giovinezza.

L’Anfiteatro delle Cascine è un’oasi verde nel capoluogo toscano e nella scena musicale italiana in cui si respira e si ascolta un’aria – e un suono – differente. Rachele Bastreghi, Francesco Bianconi e Claudio Brasini lo avevano annunciato, e lo ribadiscono al pranzo di inizio festival al Teatro del Sale aperto al pubblico. Colonne, capitelli eleganti, drappi e ampie arcate. Una grande tavolata, con la band in mezzo. Vista lateralmente, con Bianconi – occhiali in odor di pentapartito d’ordinanza e capello lungo – al centro, una cartolina da Cenacolo vinciano. Sul menù – urlato a squarciagola a cadenza via via più serrata dalla finestra del cucinone – delizie toscane.

Bianconi a El galactico. Foto: Simone Biavati

«El Galactico è nato per cercare di dare spazio ad un’attitudine. Anche al talento, sicuramente, ma soprattutto a un’attitudine, simile a quella che animava i Baustelle quando si sono messi a suonare. Artisti che come noi credono ancora all’importanza della musica live come forma di espressione». Patè di fegatini con pane al finocchietto e uvetta. «È un momento complesso per la musica live in Italia. Ci sono gli stadi, i grandi tour. Ma dietro c’è tutto un mondo che non trova spazio. Viviamo con disagio questo momento storico in cui, di fatto, non ci sono club nelle città. A Roma un club da 3000 persone non esiste. A Milano, Bologna e Firenze qualcosa rimane ma nella provincia è tutto sparito, disintegrato. Per noi sarebbe stato impossibile emergere oggi. O quantomeno molto difficile». Trippa, melanzane e feta. «È cambiato il modo di condividere la musica. La responsabilità è anche di chi la musica la fa. Le case discografiche, i management, gli streaming hanno un impatto, però molto dipende dall’artista. Se l’artista dice no, a me interessa altro, questa cosa non la voglio fare così, ci può essere una spinta verso il cambiamento». Pappa al pomodoro e lampredotto stufato. «Noi siamo pecore nere, mosche bianche, abbiamo questa possibilità di aiutare realtà che invece nascono adesso e che vorrebbero esprimersi, comunicare in maniera diversa, senza dover necessariamente passare dai soliti canali».

Un festival vicino, nelle intenzioni, al rimpianto Tora! Tora! di Manuel Agnelli, per dimostrare che non esiste un unico modo e per garantire un diritto all’esistenza. «Dare un’alternativa alla ricerca ossessiva unicamente finalizzata al colpo grosso. Cosa arricchisce di più, il boom immediato, la rapina in banca, o la capacità di consolidare e di rimanere magari eterni?». Un dilemma dall’eco epico, achilleo. Ma d’altronde, è difficile resistere al mercato, amore mio. È difficile anche resistere alle polpette di manzo, capperi e acciughe con purè. «Continuiamo ad essere noi stessi, a fare quello che abbiamo sempre fatto con la stessa visione. Credendo in quello che abbiamo, mantenendo una predisposizione all’ignoto. Scegliendo cosa fare e soprattutto cosa non fare. Se avessimo fatto tutto quello che ci è stato proposto senza scegliere nel 2008 ci saremmo sciolti. Sicuro. Come la morte».

Su questa lieta nota, panna cotta al caramello. «Può ancora esistere un certo modo di fare musica, lontana dagli stilemi che imperano oggi. Facciamo questo festival per salvaguardare un determinato modo di vivere la musica, per ribadire una cosa molto semplice: si può fare musica in questo Paese, musica popolare, senza dover necessariamente attraversare la solita formula».

Emma Nolde a El Galactico. Foto: Simone Biavati

El Galactico, nome dell’ultimo disco della band, dall’insegna di un bar di Milano in zona Via Padova, (vittima di speculazione immobiliare ma anche di titoli, chiedere agli amici del Mago del Gelato per conferme), è la prova che è vero. Dj set (Pierpaolo De Sanctis e Bassolino), talk de Il Post, concerti dal pomeriggio a mezzanotte. L’Anfiteatro diventa emanazione e sublimazione del mondo della band di Montepulciano, in cui l’ascolto collettivo è accompagnato dalla ricerca tangibile di quell’attitudine. Già mentre ti avvicini, l’arrivo all’Anfiteatro è accompagnato dagli echi di Cindy Lee, dei Pulp, di Mina, dei Talking Heads, di Caetano Veloso, dei Monkees e di altri dischi galattici che si materializzano nel trolley delle meraviglie – borsa di Mary Poppins – di Giulia Cavaliere. Prima dei concerti il palco è de Il Post, che alterna Stefano Nazzi – che racconta la Milano degli anni ’70 in una puntata di Indagini live – alla caciare funambolica di Daniela Collu e Matteo Bordone. «I Baustelle sono stati il primo gruppo che ho recensito nell’autunno del 2000, a Dispenser su Radio 2. Siamo amici e sono felice di essere qui con loro, a raccontare storie di canzoni un po’ tremende, ma irresistibili. Espiate tutto quando suonano i Baustelle».

Espiazione che arriva ben prima dell’inizio degli headliner, con i progetti – band e solisti – in apertura al gruppo toscano. Scelte stilisticamente variegate, ma rigorosamente guidate dalla ricerca di quell’approccio al relazionarsi con la musica che Bianconi e compagni vogliono preservare. Ecco quindi nella due giorni alternarsi sul palco dalle 19 alle 21 la grazia melodica di Marta del Grandi, l’esotismo psichedelico dei Neoprimitivi, la tenerezza sghemba dei Delicatoni, e la freschezza elettrizzante e consapevole di Emma Nolde, che nel suo set presenta il singolo Indipendente, in uscita il 4 giugno.

Emma, come i Baustelle, nasce in Toscana nell’anno 2000. Sono coetanei, e – secondo Keynes – non cambierà più idea nemmeno lei. Ha imparato ad amare i Baustelle in furgone, in tour, nei viaggi tra una città e l’altra, «una porta privilegiata nel vivo della loro musica: il ragazzo alla guida era un fan sfegatato». Lo è diventata anche lei, e la cosa sembra essere reciproca. «Quando mi hanno proposto di partecipare al festival c’è stato grande entusiasmo, che non è scontato. Perché suonare è sempre bello, però percepire quel tipo di entusiasmo da parte delle persone che hai intorno è sempre segnale di qualcosa di particolarmente vero. Non è scontato che una band come i Baustelle – che ha determinato il loro tempo – ti ringrazi per venire a suonare alla loro festa. Grazie di cosa? Grazie a voi. Grazie per aver creato questa atmosfera».

Foto: Giulia Breschi

Alle 21:15, sotto la luna crescente che fa capolino dietro alle gradinate, un enorme gong rimbomba nell’arena e inizia il concertone dei padroni di casa. Hanno aperto i cancelli ad amici ed ospiti, ma ora si godono il palco che hanno allestito. Lo sfondo californiano di El Galactico in qualche modo si incastona perfettamente nella cornice bucolica di inizio giugno.

Dalla torretta alla sinistra del palco – vedetta e faro dell’arena – si calano sulla scena amici e ospiti a sorpresa. Cantano e si abbracciano. Mostri solitari ci obblighiamo a concerti, sembrano sussurrarsi. C’è Carlo Corbellini dei Post Nebbia, Irene Grandi (sulle note di Bruci la città, scritta da Bianconi), Amalfitano, Coca Puma e nell’incredulità generale – con cappello ma senza baffi – Niccolò Contessa torna su un palco a nove anni dall’ultima volta. Sulle note di Nabucodonosor, mai suonata live prima, allo scoccare dell’ennesimo gong, l’ingresso del leader de I Cani provoca un mancamento generale. Te lo ricordi a El Galactico quando è entrato Contessa e sei svenuta?

Il doppio concerto – a chiusura di entrambe le giornate – permette un lungo viaggio nella discografia della band. Priorità all’ultimo album, che dà il nome al festival e verrà portato in giro quest’estate. Ma spazio anche ai classici – tra cui un inedito medley in acustico di Le rane e Contro il mondo – e a brani ugualmente iconici, ma che live si ascoltano più di rado, o canzoni fuori stagione come La settimana bianca. «Fate il videino con il telefonino, che poi per altri 25 anni questa non la facciamo». Perdere Giovanna, Ragazzina e Riformatorio la prima serata, Gli spietati, Nessuno e Alfredo nella seconda. A chiudere entrambi i set, didascalicamente, Andarsene così.

Foto: Simone Biavati

Tutto sommato adesso è facile fare una sintesi distaccata del primo El Galactico Festival. 
Nell’universo Baustelle non c’è la ricerca del personaggio, della spettacolarizzazione a tutti i costi, dell’esuberanza scenica, dei fuochi d’artificio. C’è la cazzimma di Rachele. La solidità di Claudio. Le mani affusolate di Francesco che si muovono sullo sfondo bianco ricalcando le parole e inseguendo le linee melodiche. C’è una band di musicisti veri sul palco, che suona da Dio, e la sua gente in piedi sulle gradinate, che scalpita di gratitudine e urla tutte le canzoni a memoria.

I Baustelle, 25 anni da mosche bianche, un quarto di secolo che sono loro stessi. 
Stando a Keynes, arrivati a questo punto, non potranno cambiare più. E rimarranno sempre così. 
Francamente,
ce lo auguriamo.