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Ricordati che devi gioire: i Depeche Mode nei palasport

Siamo stati a Manchester per vedere lo show che a fine marzo arriverà a Torino e Milano. Aspettatevi uno spettacolo leggibile a vari livelli: un concerto pop, ma anche una riflessione sul carattere effimero della condizione umana

Foto: Katja Ogrin/Redferns/Getty Images

Nella pittura di genere del Seicento olandese, il tema del memento mori trovava ideale collocazione nei dipinti a soggetto musicale. Specialmente attraverso il dispositivo del quadro nel quadro, la cornucopia iconologica del secolo d’oro riversava su tela teschi, candele, frutti e clessidre, allo scopo di rendere palese il monito, amplificando gli ammonimenti sulla vanitas già insiti nelle allegorie musicali, perfette per rappresentare attraverso la caducità del suono quella della condizione umana.

Quattrocento anni dopo un simile meccanismo visivo si svela allo sguardo dei 20 mila della AO Arena di Manchester, oltre la grande M che sovrasta il palco sintetizzando quella stessa locuzione latina, Memento Mori, adottata come appropriato titolo dell’ultimo album e del relativo tour giunto alla terza data della leg #4, che dalla madrepatria — via Glasgow e Dublino — porterà i Depeche Mode sul continente, con tappe italiane a Torino (23 marzo) e Milano (28 e 30 dello stesso mese).

Come un quadro nel quadro lo schermo proietta immagini che propongono significati alla performance dal vivo, e da essa ne ricevono altri in cambio. “Broken meanings” come quelli delle scene in bianco e nero di Ghosts Again, con la bergmaniana partita a scacchi tra Dave Gahan e Martin Gore incappucciati entrambi da Tristo Mietitore (vale la pena sottolineare che Andy Fletcher, il cui spirito aleggia musicalmente e visivamente all’interno dell’arena, era un eccellente scacchista).

Benché la loro genesi sia antecedente alla morte di Fletch, i temi sviluppati dall’ultimo album ed esposti in tour non possono non essere letti in virtù dell’attuale condizione umana e artistica dei Depeche Mode. Altri “broken meanings” vengono ricomposti sul palco dall’interazione tra i due superstiti: la perdita di colui il quale era collante artistico e umano, per una band perennemente in preda a forze centrifughe, li ha lasciati scoperti e vulnerabili proprio come re e regina su una scacchiera deserta (decida il lettore quale dei due pezzi assegnare rispettivamente a Gore e Gahan). Ed essi sembrano aver reagito superando finalmente le reciproche asprezze per proteggersi a vicenda.

Lo dice l’inedito affetto delle parole con cui Dave saluta il momento solista del compagno («La bellissima, angelica voce di Mr. Martin L. Gore»: quando mai, in passato?), lo ribadisce il loro abbraccio dopo Waiting for the Night, cantata assieme sul bordo della pedana.

Ma riavvolgiamo il nastro. Dopo l’headliner Nadine Shah, Gore e Gahan guadagnano il palco illuminato d’azzurro sul tetro pad elettronico di Speak to Me, per lanciarsi in un’altrettanto cavernosa My Cosmos Is Mine, affiancati dal batterista Christian Eigner — primo motore del brano con la sua possente doppia cassa — e dal fido factotum Peter Gordeno. Poi, poco alla volta, la band di Basildon inizia a mostrare il suo lato più caldo e groovy, man mano che Dave comincia a pavoneggiarsi su Wagging Tongue e Walking in My Shoes, la cui tematica calzaturiera lo invita a sfoggiare le sue scarpe di pelle bianca.

Ma la scaletta sembra fatta apposta per smorzare ogni accenno di vanitas con un nuovo memento mori. “Ricordati che dovevi morire” è la parafrasi dei tre brani che scorrono in successione: It’s No Good (mentre il muso azzurrino degli asini sullo schermo fa pendant con il panciotto del frontman), Policy of Truth e In Your Room sono una sintesi degli anni in cui Gahan la morte l’ha davvero sfidata a scacchi — tre incontri in altrettanti anni — mentre Gore e Fletcher venivano risucchiati da dipendenze e depressioni; ma sono anche gli anni della resurrezione annunciata da Ultra (1997).

Everything Counts, ci ricorda il titolo del brano che riporta le lancette indietro di quarant’anni, lanciato dal battito di mani di Dave, che eredita da Fletch il compito di incitare il pubblico, prima che il quadro nel quadro aggiunga ulteriore senso al messaggio anti-vanitas della canzone, mostrandoci un oscuro mimo in guanti bianchi impegnato a tradurre in segni il testo. «Sounds much better than London!», si sbilancia il navigato istrione di Epping. Dopo una vigorosa Precious, su Before We Drown trionfa nuovamente la monocromia visiva di onde marine che non sembrano lasciare scampo al protagonista, i cui versi riecheggiano l’attuale situazione della band: “Dobbiamo andare avanti, prima di annegare”.

Il momento solista di Martin arriva giusto in tempo per stemperare la tensione musicale di questo squarcio di setlist. Le due ballad Strangelove e Somebody sono una parentesi necessaria, in cui il canto dell’arena mescola ritornelli e acclamazioni per il meno avvenente dei due Depeche Mode; che pure se la merita una standing ovation, considerata la sua preminenza compositiva. Rinfrancato dai 20 mila di Manchester, Mr. Gore si spinge fino al punto più lontano dalla sonorità classica della band e dalla sua stessa emotività.

Il memento mori, in tutti i sensi, torna protagonista con Ghosts Again, hit dell’ennesima rinascita e, ancor più esplicitamente, con Enjoy the Silence in chiusura di programma: Dave, volteggiante come un Nureyev pop, guarda di nuovo in faccia la morte, irridendola mentre percorre la pedana prolungata verso il palco, ora dominato da un teschio glitterato che invita a esperire il verbo chiave “enjoy”. Come a dire: ricordati (anche) di gioire.

Nel mezzo, altre piccole vanitas da classifica: I Feel You (il cui groove in 6/8 stuzzica i piedi degli spettatori ancor prima delle loro voci), A Pain That I’m Used To, Behind the Wheel dedicata a Fletcher — e memore dell’estetica italiana nel video ormai vintage — e poi Black Celebration, Stripped e John The Revelator.

Tempus fugit, reciterebbe un altro monito, ed è già il momento del bis, aperto da Waiting for the Night e dall’abbraccio dei due leader sul proscenio. «Are you ready to have a bit of fun?», chiede Gahan. Domanda retorica. Just Can’t Get Enough, in questo caso, non è tanto un titolo quanto una presa di posizione: nella memoria dell’epoca d’oro synthpop la vanità dell’istrionico frontman può finalmente esibirsi senza tema di morigeratezza (se non quella dei suoi sessant’anni, portati fin troppo bene per quante ne ha passate).

Il quadro nel quadro, finalmente, si accorda con la sua figura senza caricarla di significati sinistri. “Just a bit of fun”, che continua con un’ulteriore coda vocale del pubblico, abilmente diretta dallo stesso maestro di cerimonie, prima di lasciare il campo a Never Let Me Down Again e a una Personal Jesus introdotta con incidere blueseggiante.

Un ultimo scambio di sorrisi e abbracci tra Dave e Martin. Tempus fugit, ma è stato un gran bel tempo, e ci ha ricordato (anche) di gioire.

Setlist

My Cosmos Is Mine
Wagging Tongue
Walking in My Shoes
It’s No Good
Policy of Truth
In Your Room
Everything Counts
Precious
Before We Drown
Strangelove
Somebody
Ghosts Again
I Feel You
A Pain That I’m Used To
Behind the Wheel
Black Celebration
Stripped
John the Revelator
Enjoy the Silence
Waiting for the Night
Just Can’t Get Enough
Never Let Me Down Again
Personal Jesus

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