Radiohead, il gonzo report di Bologna | Rolling Stone Italia
2+2=5

Raggiungere l’illuminazione durante il live di quei cinque stronzi dei Radiohead a Bologna

Per la seconda della band in Italia accade un po' di tutto: ricordi della giovinezza che fuoriescono stimolati dai tempi dispari, lacrime che si mescolano con il sudore, rutti al sapore di aglio. Il (gonzo) report

Raggiungere l’illuminazione durante il live di quei cinque stronzi dei Radiohead a Bologna

Thom Yorke coi Radiohead nel tour 2025

Foto: Alex Lake

“Cosa mi aspetto da un concerto dei Radiohead nel 2025?” La mia mente se lo chiede mentre l’auto del mio amico Simone divora la strada che separa Milano da Casalecchio di Reno, dove tra poche ore la band si esibirà nella seconda serata del loro poker di live tricolore. Per prepararmi ho accuratamente evitato di leggere qualunque recensione dei loro precedenti show a Madrid e del debutto italiano, non ho riascoltato nessuno dei loro dischi, alcuni dei quali ho amato follemente nella mia giovinezza, in un tempo che ormai sembra lontano anni luce dalla vecchia scoreggia di mezza età con famiglia che sono ora. L’impressione generale che mi sono fatto non è delle migliori a dir la verità.

È la prima volta che il gruppo si imbarca in un tour che non è a supporto di nuovo materiale, è la prima volta che i suoi membri suonano dopo un periodo di inattività così lungo. È come se Yorke avesse fatto un giro di telefonate dopo aver visto gli incassi del tour degli Oasis dicendo: «Oh, qualcuno di voi ha voglia di fare un po’ di cassa capitalizzando la nostalgia indotta da un silenzio durato sette anni? Dai buttiamo giù qualche prova e andiamo». Per un gruppo che ha fatto del guardare avanti la propria motrice in tanti anni, che ha aperto squarci su altre dimensioni campionando visioni future e incorporandole armoniosamente nella propria musica, questo ritorno con gli occhi puntati al catalogo passato ha un retrogusto autocelebrativo.

Non ha aiutato il sistema da fighetti, messo a punto dagli stessi, per scongiurare i rischi di uno dei mali del secolo, il secondary ticketing. Un sistema di autenticazione a otto fattori e scanning delle impronte digitali che faceva rimpiangere la compilazione del modulo 730 senza l’aiuto del commercialista e che ha ottenuto come risultato quello di lasciare scontenti moltissimi fan e di vedere i prezzi di un biglietto lievitare come un monolocale a Milano in zona Isola. E non ha aiutato nemmeno la polemica legata a una mancata posizione netta su Israele da parte del gruppo, con Yorke a metterci una toppa che fa vedere di più lo strappo e non appaga la sete di sangue della polizia morale dei social.

Ma tutti questi pensieri svaniscono come ghiaccio nel microonde quando la band sale sul palco circolare montato alla Unipol Arena: io ci leggo una metafora del tentativo di sfuggire alla forza centrifuga che negli anni ha impegnato i vari membri (Yorke e Jonny nei meravigliosi The Smile, Colin come bassista per Nick Cave, Ed O’Brien e Phil Selway a cacciare materiale solista), di recuperare una circolarità delle relazioni che intercorrono tra musicisti così diversi eppure così complementari, di mettersi in tondo e far parlare solo l’impressionante mole di canzoni meravigliose licenziate in più di 30 anni. Ma forse è solo un palco circolare figo con pannelli led a vari gradi di trasparenza che scendono e salgono creando un semplice ma raffinato gioco di séparè futuristici.

Si inizia alla grande con 2+2=5, canzone da Hail to The Thief a cui sono particolarmente legato perché mi ricorda i miei terrificanti exploit coi test di matematica della scuola dell’obbligo (motivo per cui scelsi il liceo classico). Peccato che il suono sembri uscire dal vecchio televisore Mivar col quale mia nonna guardava La signora in giallo mentre io mangiavo i trancetti al cacao di Balconi, la risposta delle case popolari alla Mulino Bianco (li amavo e li amo ancora, un po’ come i Radiohead). Le cose dal punto di vista acustico miglioreranno progressivamente ma mai abbastanza. Si prosegue con Airbag ed è uno dei tanti sussulti emotivi che questi quasi sessantenni provocheranno al mio organismo, comunque non giovanissimo. Non avrei dovuto ingozzarmi di tortellini fritti e fonduta di parmigiano alle 18, ma non c’è tempo per i rimpianti.

La sezione ritmica, vitaminizzata dall’aggiunta di Chris Vatalaro, è la base su cui si innestano naturalmente gli altri membri: Jonny, piegato a torturare la sua Telecaster come se volesse farle confessare dove ha nascosto i soldi della rapina; la voce di Yorke che a dispetto del simulacro fisico dalla quale esce (ricorda un Marco della Noce post-atomico) è chiara e cristallina come il primo giorno che la sentii intonare Creep su Videomusic; Ed O’Brien a saltare tra i solchi tracciati dai compari riempiendoli. Jigsaw Falling Into Place e la sua vertiginosa costruzione rendono elettrico il pubblico, che si scalda ulteriormente con All I Need, mentre non posso fare a meno di constatare che canzoni composte 20, 30 anni fa e che allora prefiguravano un futuro criptico, freddo ma anche eccitante nel suo mistero, oggi sembrino comunque composte domani, perfetta colonna sonora dell’incertezza percettiva e delle dissonanze cognitive che stiamo vivendo.  È forse questa la definizione migliore di “classico”?

Reckoner è la chicca inaspettata capace di far vibrare anche le corde emotive di un riscossore crediti al soldo della mafia siberiana, indubbiamente uno dei vertici di questa serata. Non faccio in tempo a riprendermi che i Radiohead attaccano The Bends, la title track del disco che ha canonizzato la fase rock del quintetto prima che si imbarcasse in un viaggio senza ritorno verso i confini più lontani della forma canzone. E quando è il turno della monumentale Pyramid Song io mi sento appunto come Keir Dullea nel finale di 2001 – Odissea nello spazio. Non sento i corpi più giovani che mi si accalcano vicino, le zaffate di aglio appena ruttato da un entusiasta vicino a me, la vespa che mi si appoggia in faccia: ormai veleggio a mezz’aria, sospinto dall’ambiguità metrica di una delle mie canzoni preferite di sempre, un quattro quarti dove le unità di tempo non sono tutte uguali e gli accenti sono simmetrici ma separati da distanze diverse (3-3-4-3-3). Questa è la magia di questi cinque stronzi qui: il cervello si aspetta appuntamenti puntuali che arrivano in leggero ritardo ma si ripetono sempre uguali, creando una sospensione eccitante e mai scontata. È spiazzante ma ti senti a casa.

I Radiohead sono i migliori a rendere la complessità accessibile senza spiegarti come. Ormai sono trasmigrato nel satori quando arriva Sit Down. Stand Up. Giusto la parentesi più rassicurante della serata, No Surprises ci ricorda che quando vogliono Yorke e compagnia dissonante sono in grado di scrivere perfette canzoni pop. Fa caldo e sono sudato, o forse sto piangendo, non saprei. So che quando arrivano Exit Music e Street Spirit in rapida successione io sono uno Shinkansen che mi riporta ai miei 20 anni, pronto a fare il turista zaino in spalla che visita la sua gioventù, un paese ormai esotico e lontano.

Quando la band torna sul palco per i bis ormai è chiaro anche al più sfatto dei partecipanti (credo sia una ragazza dietro di me che esala etilene a ogni respiro e ha gli occhi che sembrano saracinesche di negozi falliti da tempo) che stiamo assistendo a qualcosa di speciale. Let Down, il brano per il quale O’Brien minacciava di lasciare il gruppo se non fosse stato inserito nella setlist e diventato inaspettatamente un classico contemporaneo grazie a Tik Tok, non mi è mai sembrato così pazzesco. Weird Fishes/Arpeggi, introdotta da Thom che ha parlato poco (in italiano) ma ha ballato molto nel suo classico stile “pupo siciliano manovrato da un marionettista epilettico”, prefigura le ultime grandiose cartucce da sparare in questa serata inaspettatamente (almeno per me) memorabile.

Quando attaccano Paranoid Android, con la sua geniale struttura a tre (o quattro… come ho già scritto la matematica non è il mio forte) sezioni distinte e un ritornello che l’ascoltatore irretito attende dopo le ripetizioni dei primi minuti ma che non arriverà mai, non è più una canzone ma un rito collettivo. Sto appena pensando che mi sento pieno e soddisfatto come al pranzo di Capodanno salentino della famiglia di mia moglie quando sento le prime cinque note di Prophet 5 che introducono la mia composizione preferita del quintetto, quella che ascolto ogni notte da almeno 20 anni: Everything In Its Right Place. Ora sì che sto piangendo. Magari sono diventato solo vecchio. Ma le canzoni dei Radiohead, quelle decisamente no.

Setlist:

2 + 2 = 5
Airbag
Jigsaw Falling Into Place
All I Need
Ful Stop
Nude
Reckoner
The Bends
Separator
Pyramid Song
You and Whose Army?
Sit Down. Stand Up.
Myxomatosis
No Surprises
Optimistic
There There
Exit Music (for a Film)
Street Spirit (Fade Out)

Encore:
Let Down
Weird Fishes/Arpeggi
(Nice Dream)
Present Tense
The Daily Mail
Paranoid Android
Everything in Its Right Place

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