Radiohead, la recensione del concerto a Bologna 2025 | Rolling Stone Italia
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Radiohead a Bologna, il prodigio dell’angoscia che diventa bellezza

La recensione del primo dei quattro concerti all’Unipol Arena, male all’inizio, bene alla fine. Le canzoni che un tempo sembravano strane profezie sono diventate descrizioni famigliari del nostro presente. Cantarle fa bene

Radiohead a Bologna, il prodigio dell’angoscia che diventa bellezza

Thom Yorke coi Radiohead a Bologna, 14 novembre 2025

Foto: Alex Lake

Avrà pure 57 anni, ma Thom Yorke sembra ancora attraversato da scariche elettriche. La sua danza scoordinata sembra un modo per scrollarsi di dosso la smisurata angoscia del presente, ma anche la celebrazione della sua e delle nostre singolarità. Accompagna i groove spasmodici dei Radiohead, quei ritmi su cui a volte è difficile contare il tempo, ma che t’impediscono di stare fermo, quei suoni che sembrano materici e che nella loro ostinata ripetitività t’inchiodano. Ogni volta che Yorke accenna a uno dei suoi passi ubriachi, la gente impazzisce. Ogni volta che la band piazza uno dei suoi riff più noti, la gente impazzisce. Ogni volta che parte una meravigliosa cantilena, la gente impazzisce. E quando alla fine di Daydreaming, in versione ninnananna dark che zittisce l’Unipol Arena, Yorke canta “siamo solo felici d’essere al vostro servizio” sembra davvero che lo stia dicendo al pubblico di Bologna.

Il punto di questa serata iniziata malino e finita bene non sono le chiacchiere da social, non i biglietti costosi e introvabili, né le complicazioni necessarie per procurasene uno. Il punto non è Jonny Greenwood che suona con un israeliano a Tel Aviv o Thom Yorke che non chiede scusa alla polizia morale di internet. Il punto non è la politica, anche se i Radiohead dicono tutto quello che devono dire facendo scorrere a fine concerto il testo di quella che sembra proprio la Dichiarazione universale dei diritti umani. Il punto non è nemmeno la nostalgia, non è la stagione delle reunion, non è il rock ridotto a rifare sé stesso. Il punto, mi sembra, è che le canzoni dei Radiohead che un tempo sembravano strane profezie di un futuro che nessuno voleva vedere sono diventate descrizioni famigliari del nostro presente. E quando le portano su un palco, com’è successo ieri sera, ne riscattano il carattere cupo, a volte porgendole con più leggerezza, meno cariche. Sentirle e (quando si riesce) cantarle fa bene. L’angoscia diventa bellezza e si afferra il senso della presenza dei Radiohead nel 2025. Come ha detto il chitarrista Ed O’Brien nell’intervista che la band ha concesso al Sunday Times, sono stati i figli suppergiù ventenni a spiegargli con una battuta come mai Let Down è tornata di moda: «Che t’aspettavi? Gli adolescenti sono depressi e questa roba è deprimente».

Non è esattamente deprimente, anzi le due ore di concerto di ieri sera hanno dimostrato sia la forza espressiva di canzoni di dieci, venti, trent’anni fa, sia che cosa può succedere quando metti assieme sullo stesso palco musicisti diversi per inclinazioni e stili che però si completano a vicenda in modo originale, creando un suono cangiante e distintivo. Sì, i Radiohead non sono più in grado di inventare il futuro come hanno fatto ai tempi di Ok Computer o di Kid A. Forse non sono nemmeno in grado di fare disconi del livello di In Rainbows. Andando verso i 60 non hanno la vitalità di un tempo. Ma ci sta che a un certo punto una band che ha dato tanto faccia un giro d’onore quale sembra questo tour col palco al centro e senza un disco nuovo da suonare, solo una storia da rianimare. Se lo meritano.

L’inizio però è deludente. Per prima cosa suonano Planet Telex, ma la canzone suona gelida e scomposta nell’Arena di Casalecchio, il suono è pessimo (poi migliorerà), loro restano nascosti dentro una specie di poliedro formato da una dozzina di pannelli che s’alzano e abbassano e funzionano da schermi semitrasparenti. Quando arriva Lucky il concerto finalmente decolla per forza e intensità, la distanza col pubblico si riduce e si capisce, tra l’altro, che si ascolterà la scaletta della terza data di Madrid, stesse canzoni, stesso ordine. E così alla versione scarnificata di Gloaming, con la voce che rimbomba nel palazzetto come se provenisse da un’altra dimensione, seguono il groove monumentale di There There, con meritata standing ovation in tribuna, e una No Surprises che ci ricorda che i Radiohead non sono solo il gruppo di nerd a cui piace farlo strano, ma hanno anche i pezzi. E stasera Weird Fishes/Arpeggi è di una dolcezza leggera e assieme straziante. Non è da tutti contribuire a ridefinire i canoni della bellezza nel rock.

Jonny Greenwood all’Unipol Arena. Foto: Alex Lake

Sul palco quasi tutti e sei suonano almeno due strumenti (tante percussioni, comprese quelle di Chris Vatalaro), ogni tanto spariscono in una botola per poi ricomparire, meriterebbero un suono migliore visto che a un concerto dei Radiohead non si va solo per cantare in coro “for a minute there I lost myself” (farlo dà gusto, eh), ma anche per godere gli intrecci degli strumenti, le timbriche, i dettagli che a volte definiscono le canzoni. A volte si fa fatica a capire le parole che canta Yorke. Gli schermi sopra le teste dei musicisti ne riproducono dei doppi distorti, primi piani deformati del cantante, le immagini sembrano prese da telecamere a raggi infrarossi, sdoppiate, deturpate da glitch e interferenze. Il massimo del dialogo col pubblico è un «grazie» che il cantante ripete un paio di volte e il «Tutto bene? Si sente bene?» in italiano dopo Daydreaming. Dai Radiohead non ci aspetta gesti piacioni da concertone rock, semmai un gioco di connessione e disconnessione, un passaggio continuo tra pezzi costruiti come jam digitali, ballate che fanno venire il magone, riffoni enormi come quello di National Anthem.

Non sbagliano un pezzo nei bis, forse A Wolf at the Door potevano farla meno carica, perché in un palasport il suono diventa facilmente saturo e caotico, ma la sequenza che parte da Fake Plastic Trees e arriva a Karma Police, passando per la ritrovata Let Down, le stonature collettive di Paranoid Android, la versione quasi doo-wop (un doo-wop in stile Radiohead ovviamente) di You and Whose Army? e l’alternative di Just ci ricorda che questo è stato un tempo un gruppo rock più convenzionale. È esattamente quel che ci vuole a fine concerto.

Mentre si dedicavano ai dischi solisti, alle collaborazioni, alle colonne sonore, ai libri fotografici, ai fatti loro, il mito dei Radiohead s’ingigantiva e in una nuova generazione d’appassionati cresceva il desiderio di vederli dal vivo avendoli persi all’epoca per età, e in alcuni casi per distrazione o gusto. Ieri c’erano tutti, chi era ventenne e chi faceva le elementari ai tempi di The Bends. Sono stati accontentati con un concerto che ha dimostrato che nel rock vincono le singolarità, i talenti che non puoi incasellare, i musicisti che non cedono al desiderio di essere come tutti, ma trasformano in metriche strambe e suoni eccentrici la loro maledetta, benedetta diversità.

Set list

Planet Telex
2 + 2 = 5
Sit Down. Stand Up.
Bloom
Lucky
Ful Stop
The Gloaming
There There
No Surprises
Videotape
Weird Fishes/Arpeggi
Everything in Its Right Place
15 Step
The National Anthem
Daydreaming
Subterranean Homesick Alien
Bodysnatchers
Idioteque
Fake Plastic Trees
Let Down
Paranoid Android
You and Whose Army?
A Wolf at the Door
Just
Karma Police