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«Questa è per Ozzy»: l’ultimo concerto degli Who in Italia

Ieri è andato in scena a Milano l’addio di Townshend e Daltrey. Niente retorica, né litigi: hanno suonato e cantato un pezzo della loro storia come sono in grado di farlo a 80 anni, ovvero bene, ma senza la fisicità di un tempo. È stato bello, grazie di tutto

Foto: Sergione Infuso/Corbis via Getty Images

«Questa è per Ozzy, che Dio lo benedica». La seconda e ultima data del breve tour italiano degli Who inizia con una I Can’t Explain dedicata al cantante dei Black Sabbath, la notizia della cui scomparsa è arrivata al pubblico che sta progressivamente riempiendo il Parco della Musica di Milano. Poco prima, sullo schermo, è apparsa una grande foto di Osbourne con la scritta “Ciao Ozzy”.

Non capita spesso di andare a un concerto sapendo che è l’ultima volta che si potrà vedere una certa band. Chi ha visto di recente Bruce Springsteen con la E Street Band sa che tutto sommato potrebbe succedere ancora. Vale anche per chi il prossimo autunno si spingerà in Francia o in Belgio per vedere Bob Dylan. Ieri sera invece un altro pezzo della storia del rock è passato per l’ultima volta da Milano e dall’Italia. Il nome del tour, The Song Is Over, non lascia tanto spazio a congetture. Gli Who hanno salutato con quella che è solo la seconda di due date in Europa continentale (la prima era stata domenica a Piazzola sul Brenta). Poi ci saranno gli Stati Uniti e poi chissà, sicuramente la Gran Bretagna. Ma il sito ufficiale parla di “tour d’addio italiano”, scritto così, nella nostra lingua. Pete Townshend ne ha da poco fatti 80, Roger Daltrey addirittura 81. E allora è giusto pensare alla propria legacy, cosa che fin qui gli Who hanno fatto molto bene, e chiudere in bellezza quando ancora la salute permette di farlo. Senza troni alla Ozzy o concerti d’addio annullati alla Jeff Lynne.

Pete Townshend vestito di lino bianco e dritto come un fuso, e Roger Daltrey tutto denti dietro gli occhiali da aviatore optano per un suono pulitissimo, a partire dalla chitarra, e per cori che sottolineano l’aspetto più “pop” di molte loro canzoni, compresa una My Generation che parte al fulmicotone per sfumare in una versione allungata che pesca addirittura da Cry If You Want (da It’s Hard, per molto tempo l’ultimo disco in studio della band).

Quello degli Who 2025 non è un rock rumoroso, gli strumenti non si sovrastano mai tra loro e non coprono la voce, si ascoltano le canzoni. E che canzoni. Simon Townshend (chitarre, mandolino, cori), Loren Gold (tastiere, cori), Jon Button (basso), Scott Devours (batteria, al secondo concerto col gruppo dopo il licenziamento di Zak Starkey) e John Hogg (cori) lavorano per i due fuoriclasse, che a loro volta giocano di squadra senza pestarsi i piedi. È chiaro che, anche solo per una questione squisitamente anagrafica, non sono più quelli degli anni ’60 e ’70, il loro periodo mirabile, ma non lo è nemmeno il pubblico, parte del quale peraltro in quegli anni non era nemmeno nato.

E allora pazienza se a un generosissimo Daltrey capita qualche momento di fatica. Pazienza se Townshend non si stacca più da terra e le sue chitarre terminano indenni il concerto. È bello essere qui a testimoniare l’ultimo capitolo di una storia fatta di sette decenni di Maximum R&B. E quando arriva la pennata di Pete, se si chiudono gli occhi e si esercita un po’ di immaginazione si può finire al Marquee nel 1965, con un diciottenne David Bowie tra il pubblico, che otto anni più tardi affiderà a Mick Ronson il riff della I Can’t Explain contenuta nelle sue Pin Ups.

Gli Who passati l’ultima volta a Milano, era il 2016 al Forum di Assago, raccontavano questa storia con filmati e visual che inghiottivano il palco e la band che ci stava sopra, gli Who di oggi ce la suonano, questa storia. Loro sono l’Inghilterra: l’R&B, il soul, il beat, il music hall, le chitarre affilate dei mod. Fanno parte della cultura britannica, e non solo di quella pop. Quadrophenia (ieri sera l’album più saccheggiato subito dopo Who’s Next) è diventato addirittura un balletto classico con l’imprimatur di Pete Townshend, in cui Matthew Ball, primo ballerino del Royal Ballet, è stato felice di fare un cameo. Fanno parte della cultura britannica e ci tengono a fare le cose per bene.

«E ora una canzone che non abbiamo suonato per tanto tempo. Be’, forse da febbraio quando abbiamo fatto casino al Teenage Cancer». E arriva The Song Is Over, la pietra dello scandalo. In realtà era marzo: sul palco della Royal Albert Hall, durante il concerto benefico che spesso li ha visti impegnati a favore del Teenage Cancer Trust, gli Who erano rimasti tutt’altro che soddisfatti della performance, con tanto di accuse di overplaying a carico di Zak Starkey e successivo licenziamento del batterista. Ieri ha funzionato tutto. Quando si cade da cavallo è meglio risalire subito. Prima che la canzone sia finita per davvero.

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