Al Magnolia il pogo è sudato. È la sensazione un po’ sudicia che provi quando il braccio del tuo vicino, che non conosci, si incolla al tuo perché ti ha appena rovesciato addosso della birra. Nel frattempo ti sei infradiciata anche tu e ti lasci trascinare perché è il momento per scontrarti e incontrarti, raccontarti agli altri senza bisogno di parlare. È rock, e vuoi saltare. Il pogo nasce da questo, da un impulso primitivo che è punk, e un po’ ce lo siamo dimenticati.
Accanto a me salta un ragazzo che indossa un Barbour e sembra un po’ fuori contesto. Prima mi ha offerto una sigaretta. Fa l’analista finanziario alla Borsa italiana, gli ho chiesto che cosa ci facesse al Magnolia. «Non li ho mai visti dal vivo, mi hanno detto che spaccano. Sono venuto da solo perché i miei amici non li conoscono».
Foto: Claudia Vanacore per Rolling Stone Italia
“Be mine, be mine, be mine like a rock & roll queen”. Immaginate di provare a farcela con la musica all’inizio del secondo millennio nell’Hertfordshire, a nord di Londra, un posto ben poco glamorous. Billy Lunn e Josh Morgan crescono in una famiglia della working class, tra case popolari e zero contatti con l’industria musicale. Charlotte Cooper arriva dallo stesso contesto sociale, scuole pubbliche, locali piccoli, serate in cui suonare significa portarsi dietro tutto, amplificatore compreso. La loro identità nasce lì: nei garage e nei pub dove il rock è ancora un modo per respirare.
Il loro stile diretto e grezzo è figlio di quel contesto. Nel 2005 esce Young for Eternity, con la voce ruvida e urgente di Lunn, il basso magnetico di Cooper e la batteria istintiva di Morgan. I problemi alla voce e di salute mentale di Lunn costringono la band a prendersi una lunga pausa nonostante il successo di Rock & Roll Queen, inclusa nella colonna sonora di The O.C. Oggi, con Camille Phillips alla batterista, la band ha ritrovato un equilibrio diverso, più consapevole. Lo stile però è rimasto lo stesso: grezzo e diretto.
Foto: Claudia Vanacore per Rolling Stone Italia
Salgono sul palco del Magnolia e attaccano Oh Yeah. La prima pennata di chitarra dà il via a un’esplosione di energia e a una performance fisica. Charlotte disegna ellissi nell’aria con i capelli biondi mentre sostiene con il basso le tratte nervose della chitarra di Billy, che salta, sgrana gli occhi azzurri, suda, sorride, urla con la sua voce graffiata mentre Camille tiene il tempo. I dischi non rendono giustizia a questi brani pensati per essere suonati tra i corpi, per sciogliersi dal vivo. Se non li ascolti in un club non capirai mai davvero cosa sono.
È una cosa che colpisce dei Subways, soprattutto quando li guardi da pochissimi metri di distanza. Alcuni gruppi nascono per i dischi, loro no. Loro esistono davvero solo quando c’è qualcuno che li guarda. Hanno bisogno del sudore e delle facce, hanno bisogno dei corpi che rispondono alla musica. In studio sembrano trattenersi, come se le pareti li comprimessero. Dal vivo si aprono, la musica diventa tridimensionale. È come se ogni brano avesse due versioni: quella registrata e quella vissuta sul palco dove tutto pulsa più forte e la voce di Billy sembra scorticarsi pur di arrivare a toccarti.
Foto: Claudia Vanacore per Rolling Stone Italia
Nessuno sovrasta nessuno, tutti fanno la loro parte. Non ci sono assoli, non c’è spocchia, non ci sono fronzoli. In un momento più intimo Billy racconta di quando ha scritto I Want to Hear What You Have Got to Say: la esegue da solo, esattamente com’è nata. Poi però tornano gli altri per Kalifornia, Girls & Boys e l’immancabile We Don’t Need Money to Have a Good Time. Si balla, ci si scontra, si ride. Le persone si conoscono mentre si urtano, mentre saltano.
Un ragazzo mi dice che li ha scoperti perché guardava The O.C. e nella serie tv ci sono molti pezzi dei Subways, anche se mi viene difficile immaginare il destino del gruppo intrecciato a quello dei ragazzi del jet set di Orange County. Chiedo a Sergio, che avrà una trentina d’anni e indossa una maglietta dei Nirvana, se sa che le due band hanno condiviso il produttore Butch Vig. «Certo», mi risponde. Sono molto diversi, gli dico. «I Subways hanno meno cattiveria, però sono veri. Come lo erano i Nirvana». Ed è probabilmente una risposta onesta.
Gli chiedo perché li ama così tanto. «Ma perché sono bravissimi. Hanno scritto una hit mondiale. Quel pezzo è da fuoriclasse. Il resto non importa». Insieme a lui c’è Francesca, bionda, bella, cappotto di pelle. Avrà più di 50 anni e conosce tutte le canzoni. «Siamo amici di concerti», dicono i due, «ci vediamo sempre all’Arci Bellezza, al Legend. Ci piace il rock». Sorrido.
Foto: Claudia Vanacore per Rolling Stone Italia
Siamo all’ultima canzone. L’aria è densa. Billy Lunn gronda sudore, canta col fondo di voce rimasta perché stasera ha dato tutto. Parte Rock & Roll Queen e il pogo crea un vortice che inghiotte spalle, teste, capelli. È un tumulto bellissimo e Billy ci si tuffa letteralmente sopra, surfando con il corpo sulla folla che lo abbraccia. “My heart is blue, my heart is blue for you”.
