Pensavo di aver preso un acido, ma era un concerto di Anitta | Rolling Stone Italia
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Pensavo di aver preso un acido, ma era un concerto di Anitta

L'esibizione della star brasiliana al Milano Latin Festival è stata un'esperienza anarchica travolgente che, forse, può aiutare a capire questa follia del reggaeton. Non è che a forza di fare i fighetti che ascoltano IDM ci stiamo perdendo qualcosa?

Pensavo di aver preso un acido, ma era un concerto di Anitta

Anitta al Milano Latin Festival

Foto press

Il live è iniziato da pochi minuti davanti a una numerosa e calda folla. Mi giro verso l’amico che mi accompagna (ogni viaggio psichedelico necessita di una guida sobria) e gli chiedo se per caso sono in trip. Questa follia visivo-uditiva che sto vivendo è davvero parte della realtà?

Mi trovo al Latin Festival di Milano, la più grande manifestazione per la cultura latina in città, e accanto a me – tra bandiere delle varie nazioni sudamericane e una quantità importante di silicone dentro labbra, zigomi, sederi, seni – è partita nel pubblico una sfida tutta al femminile di capoeira mentre Anitta, l’artista brasiliana più conosciuta e seguita al mondo oggi, è sul palco che si sta lanciando in un twerk selvaggio. Sul maxischermo una proiezione di Snopp Dogg, seguita da un’animazione saltellante di una favela. «Questa roba è psichedelica», riesco a dire prima che, di botto, il live cambi completamente forma in un medley tra un classico carioca come Magalenha di Sergio Mendes e un evergreen europeo come The Rhythm of the Night di Corona.

Nella vita ho visto parecchi concerti spinti al limite della follia (nell’accezione positiva del termine), ma lo show portato da Anitta è semplicemente oltre, tanto da far sembrare un live di Aphex Twin quello di un pischello che ha appena iniziato a buttare le sue prime idee su FL Studio. Pensate stia esagerando? Può darsi, ma dopo aver sentito suonare Aphex Twin sono uscito stimolato e quando ho visto Anitta ne sono uscito sconvolto come fossi passato attraverso una centrifuga esperienziale.

C’è tutto questo complotto messo in giro dalla radio italiane per cui la musica latina è sempre una stessa canzone raggaeton ripetuta all’infinito in cui a cambiare sono solamente i vocalist (o forse è sempre Fred De Palma). Ecco, se parliamo di Anitta, scordatevi tutto questo. Nella sua musica infatti c’è una summa intelligente e intrigante di tutto l’universo della musica latina: c’è il Brasile del baile funk, la salsa cubana, il dembow giamaicano, la soca di Trinidad e sferzate di chitarra elettrica che ricordano la tradizione di un certo hard rock sudamericano. Oltre a tutta una serie di generi internazionali oramai completamente digeriti. Poi, beh, certo, c’è anche quell’unica canzone reggaeton (in particolare quando è raggiunta sul palco da – indovinate un po’? – Fred De Palma, l’unico momento musicalmente cheap dello show), ma in dosi minime, a dimostrazione di come il reggaeton sia solo una piccola parte di quell’universo sonoro.

Ecco, ora però immaginatevi tutti questi suoni e mood così differenti e provate a metterli assieme uno dietro l’altro, fregandovene di un pattern logico. Quello che vi può sembrare l’inizio di un’emicrania incurabile è invece il più grande esempio di libertà sonora – e fisica – a cui ho partecipato negli ultimi anni.

Mentre noi europei, colti, pro-Berghain, viviamo il ballo come una risposta meccanica a un determinato mix di genere, BPM, droghe da consumare con un dato pubblico in un determinato contesto, la musica latina live si apre a me come una rivoluzione anarchica in cui le regole, la logica e i concetti di bello-e-brutto, tamarro-non-tamarro, perdono valore in un upside-down che ribalta ogni idea di ballo, musica, performance. C’è più sperimentazione qui che in metà dei ricercatissimi live milanesi a cui solitamente prendo parte. Si passa da una strofa in chiave disco-pop The Weeknd a un ritornello baile funk con chitarre elettriche che potrebbe essere stato scritto dai Rage Against the Machine, da strumentali che ricordano il turbo folk di Goran Bregović a momenti sonici in cui hyperpop, metal e rave music – sempre filtrati da quell’inconfondibile ritmo tum-cha-cha-tum-cha-cha-uh del dembow – vengono sparati contro un pubblico che non è mera presenza passiva in trance, ma parte integrante dell’esperienza e della performance.

Abbracciate da bandiere nazionali e outfit ridotti all’essenziale, ragazze, donne, nonne conquistano la propria indipendenza a colpi di twerk, emanando potenza come dentro al più grande corteo femminista, mentre la comunità LGBTQIA+ è ampiamente presente nemmeno fossimo ai momenti d’oro della carriera di Gaga. Ballare in questo bagno di calore e sessualità è travolgente tanto che mi viene da pensare: «Ma quanto mi sono perso nella vita a fare il fighetto che ascolta IDM?».

Foto press

La scaletta si muove come un pastiche surrealista in cui i brani si susseguono a un ritmo da deficit dell’attenzione, senza regole e senza una logica apparente. Più di una volta, dopo un serrato filotto di canzoni e coreografie, Anitta scompare lasciando il palco a un esercito di ballerini in libera uscita che si sfogano su hit da dancefloor brasiliane come Baile de Favela e Bum Tam Tam o su qualche randomico sample dei Daft Punk. E poi Anitta rientra così, a caso, con un tempo tutto suo e te la ritrovi immersa a twerkare come una matta tanto che a un certo punto, in un italiano saltellante, dichiara che vuole prendersi tutto il tempo di un brano per dedicarsi al twerk, e nulla più. E così fa, tre minuti filati di corpi in escandescenza. “Yo perreo sola”, direbbe Bad Bunny.

Se siete arrivati fin qua, credo, immagino, deduco che la vostra idea sia che io quell’acido me lo sono davvero preso. Quasi vi darei ragione, ma mi spiace deludervi, no, non sono così cool. Entrare al Latin Festival, per una persona come me, e vivere una performance di una star sudamericana come Anitta è stato davvero come entrare in un upside down in cui i vestiti si accorciano, il ballo diventa un gesto erotico di rivendicazione della sessualità del proprio corpo (ci tengo a ribadire che Willie Peyote non ci aveva capito nulla quando rappava “Non ho capito in che modo twerkare vuol dire lottare contro il patriarcato”) e la musica perde ogni regola costruita da noi tediosi europei post-mozartiani. Penso di aver capito perché la musica latina ha un potere così forte su un pubblico così grande e ho paura di aver perso un gate in un universo più grande di me. Ora non penso altro che di tornarci.

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