Ha scelto Raffaella Carrà e ha fatto bene. Quando nella seconda parte del concerto arriva il momento in cui interpreta una cover tratta dal repertorio del Paese in cui s’esibisce, Dua Lipa fa pezzi pop larghi, con qualche rara incursione nel rock, pochissime cose recenti, quasi sempre canzoni che suscitano un moto d’orgoglio nazionale, gli AC/DC in Australia, Manu Chao in Spagna, Vanessa Paradis in Francia, cose così. Ieri sera agli I-Days di Milano ha cantato in italiano A far l’amore comincia tu. È un modo per dire: non siete una folla indistinta, io vi vedo, so chi siete. È una buona scelta: fatti i dovuti distinguo relativi a epoche, contesti e personalità, un po’ come Carrà anche Dua Lipa porta in scena una sensualità che ha a che fare più con la gioia e l’energia che con l’erotismo e la malizia.
Dua Lipa è vicina e lontana. Quello che s’è visto all’Ippodromo La Maura è uno spettacolo pop e in quanto tale coreografo ed estremamente controllato. Nei momenti meno eccitanti, nella prima parte, può sembrare un po’ una seduta di fitness di fronte a migliaia di persone (l’organizzatore dice oltre 70 mila, una marea) e un po’ disco revival dal mood funk-pop decisamente anni ’70. È altrettanto vero che la popstar s’adopera per avvicinarsi a pubblico. Succede quando canta la cover, che introduce con un breve discorso in italiano, e quando dopo Levitating scompare e riappare tra le primissime file per parlare con la gente. Il concerto s’interrompe per quattro, cinque minuti, è una stranezza ma funziona, i 70 mila fissano lo schermo per vedere e sentire Dua Lipa interagire coi fan.
Si capiscono due cose: quando i fan sono eccitati tendono a urlare nel microfono e la popstar è oggetto di venerazione. Lei prende i telefoni, scatta selfie a raffica, ringrazia tutti per essere venuti, manco fosse un festino privato. Un uomo chiede un bacio e viene accontentato. La vocina della piccola Rebecca fa fare «oooooh» a migliaia di persone. Una ragazza mostra alla camera il tatuaggio che s’è fatta sul braccio e che raffigura la copertina di Radical Optimism. «Can I get a hug?», recita il cartello di una fan. Ma certo che lo può avere. Un tizio tira fuori un regalo per la star, forse una spilla o un pendaglio, non si capisce bene. Un certo Marco è sul punto di piangere. «Are you having a good time?», chiede lei. Lui risponde urlando come un pazzo: «Yeeeeees Dua, I love you!». Ridono tutti.

Foto: Arianna Carotta per Rolling Stone Italia
In un panorama di popstar che sembrano un passo avanti a lei per energia, spirito e adesione alla contemporaneità, Dua Lipa propone una fantasia d’evasione, un ballo collettivo senza provocazioni, grandi gesti, momenti sopra le righe. E senza alcuna tensione. È tutto ritmo (una sola ballata, Anything for Love), professionalità, qualche ammiccamento. «Energia e amore», ripete lei più volte. È un tour instagrammabile, ma non mira ad avere un impatto sulla cultura pop. È intrattenimento e allo stesso tempo culto d’una star che sembra ora irraggiungibile e ora stranamente accessibile. È una specie di sogno a occhi aperti.
Forse perché oggi gli album contano fino a un certo punto, Dua Lipa è riuscita a mettere in piedi uno spettacolo pop convincente bastato per quasi il 50% su un disco debole come Radical Optimism, pieno com’è di momenti tiepidi. È un concerto divertente, per niente pretenzioso, lungo il giusto. E nel complesso Dua Lipa le canzoni le ha, eccome. Come succede da sempre nel pop, lascia ben poco spazio all’improvvisazione con un corpo di ballo che anima la scena, coriste che coprono il registro vocale più alto e musicisti che stendono basi efficaci ma impersonali, con poche concessioni al feeling della musica suonata a parte il drum break in coda a Happy for You e il brevissimo assolo di chitarra elettrica in Houdini.
Lo spettacolo è diviso in quattro sezioni di quattro o cinque canzoni ciascuna. Ogni sezione, un costume (ma non un’era alla Taylor Swift). È un modo per rendere ancora più leggera, varia e scorrevole l’esibizione. I due livelli del palco sono collegati da scalinate, una passerella s’allunga sul pit e funziona da secondo palco. «Sei mia madre!», urla una ragazza. «Brava!», grida un tizio non appena la popstar appare emergendo da un azzurro mare come una specie di Venere e si capisce che non vuol dire «brava», ma «bona». È un concerto da palazzetto ed è lì che nel resto d’Europa la cantante si sta esibendo facendo più date in ogni città. La quantità però spesso fa la differenza e a giudicare dalle reazioni della popstar la si direbbe impressionata dalla presenza e dal calore di tanta gente. «Incredibile, incredibile, incredibile», continua a ripetere. Chiede d’accendere le luci per vedere tutto il pubblico e domanda un paio di volte come se la passano quelli in fondo, che la vedono piccola così anche se hanno tre schermi supplementari. In mezzo al pubblico si sentono parlare molte lingue, si vede gente d’ogni tipo. Non è concerto dove vai a convalidare la tua identità. Ci vai a divertirti.
Per ricordare il viaggio che l’ha portata fin qui, prima di Be the One Dua Lipa ricorda la prima volta che è venuta a Milano. Era il 2016, cantava al Tunnel, «c’erano 50 persone». È la favola pop della ragazza che viene dal nulla e con la forza di volontà e il duro lavoro ce la fa. Non è tutta fiction. Nei primi anni era tristemente famosa per le performance non esattamente piene d’energia, da cui il meme “go girl give us nothing”. «Mi ha fatto molto male», ha detto tempo fa a Rolling. «Finalmente riuscivo a fare qualcosa che mi piaceva e venivo bocciata, come se fossi una che non riusciva a combinare alcunché di buono. In più ero anche sballottata in giro per il mondo. Tanta promozione, un sacco di prove: troppo di tutto, senza avere il tempo di perfezionare nulla». È evidente che non è più così.

Foto: Arianna Carotta per Rolling Stone Italia
Lo show finisce nei bis con una versione accorciata di Dance the Night, la superhit Don’t Start Now e Houdini, l’ennesimo lancio di stelle filanti arcobaleno, fuochi d’artificio. Resta la sensazione, se si vuole cercare un limite allo spettacolo, che Dua Lipa sia una che fa, non che è. È una delle massime popstar europee e ha una personalità sfaccettata, basti pensare per citare cose molto diverse l’una dall’altra alle prese di posizione su Gaza, al festival che quasi ogni anno organizza col padre a Pristina, al club del libro dove consiglia letture e intervista scrittori. Eppure, ecco il limite, non ha una verità forte da portare sul palco, che anche nel pop è la cosa che ti fa fare il salto di qualità. Ma è cresciuta notevolmente negli ultimi anni, si vede che ha studiato da popstar, e oggi è impossibile staccarle gli occhi di dosso.
Setlist:
Training Season
End of an Era
Break My Heart
One Kiss
Whatcha Doing
Levitating
These Walls
A far l’amore comincia tu
Maria
Physical
Electricity
Hallucinate
Illusion
Falling Forever
Happy for You
Love Again
Anything for Love
Be the One
New Rules
Dance the Night
Don’t Start Now
Houdini