Il rock è come il vino, solo chi lo conosce bene, anzi benissimo lo può capire. Per questo a vedere i Queens of the Stone Age a Pistoia Blues ho capito che il rock è morto. Ed è stata una morte bellissima, naturale, una messa laica di millennial venuti da tutta Italia coi loro tatuaggi ormai grinzosi sfasciati dal tempo, col loro dress code di pantaloni corti modello cargo e birra media calda nella plastica. A Tristoia (così è chiamato il capoluogo di provincia dal resto dei toscani), il cui quotidiano locale La Nazione, il più letto in ogni bar, non dedica una riga alla band di Josh Homme venuta dal deserto a spettinarci con le chitarre. Ma giustamente, che ne sanno alla Nazione del rock, dei QOTSA? Le istituzioni non hanno mai amato il rock, il suo essere sbracato; su La Nazione si parla di Ultimo, di Mengoni e compagnia lagnante. Va bene così.
L’arrivo in piazza del Duomo è un lento e solenne pellegrinaggio. Dai parcheggi circostanti vedi transumare verso il centro esseri dal vestiario diverso da quello del solito abitante di Tristoia (borsello borghese, maglietta aderente e pinocchietti a quadri). È una marcia di protesta. È la tribù zombie del riscatto le cui divise di ordinanza sono le magliette delle band (me ne sono segnate alcune) di: Brian Jonestown Massacre, Alice in Chains, Fender (2x), Butthole Surfers, Kyuss, Verdena etc (da applausi per quello con “Stai cane, diocalmo!”). Queste t-shirt sbrindellate mi ricordano un’epoca bellissima in cui la maglietta che ti mettevi ti diceva chi eri, a quale credo appartenevi e ti definiva perfettamente. Anche quell’epoca è finita, soppiantata dalle magliette delle band ormai in saldo da H&M. Mi accorgo di essere nel Matrix del capitalismo quando faccio caso che io stesso ne indosso una dei Nirvana brandizzata dal colosso svedese. Fermare il capitalismo è come fare la differenziata: inutile.
Ma la tribù del rock avanza e se ne frega di mostrare qualche dente in meno, qualche chilo di troppo, qualche stempiatura e capello bianco. Trovo in piazza gli stessi ragazzi e ragazze con cui vent’anni fa credevamo di essere i capi del mondo, con la nostra estetica di film di Tarantino, dark humor e chitarre distorte. Oggi sembriamo dei reduci. Reduci dal precariato, dai figli, dai divorzi, dagli “anta”, dalla cultura woke che ci ha archiviato come retrogradi. Portiamo addosso i segni del tempo, non ci siamo aggiornati, siamo un po’ ridicoli e sbronzi, qualcuno fuma le canne e degenera, poi sviene e lo portano via. Insomma il sogno per molti si è infranto, ma stasera no. Stasera siamo tutti a vedere il reverendo Josh Homme per ricordarci da dove veniamo.
La piazza non è pienissima, segno che l’evento è hype solo per noi. Suona un gruppo di apertura molto giovane, molto carico: The Amazons. Bravi eh, ma dopo mezz’ora anche basta. L’impianto non è il massimo e il suono sembra una grossa scoreggia col fuzz. Li salva il fatto che qualsiasi band americana o inglese metti sul palco ha verso il rock un’attitudine che noi pochissime volte abbiamo avuto. Gli viene meglio, stop. Son come i giocatori brasiliani comparati con, che ne so, quelli cinesi. Più bravi i primi.
Anni fa arrivavamo ai concerti ore prima per stonarci di birre e fare una fumata, oggi i fan arrivano a dieci minuti dall’inizio. La schiena duole. Molti amici hanno comprato il posto a sedere anche a patto di star lontani dal palco. Li capisco.
Poi si spengono le luci e vestito di bianco, bello come il sole, rasato, felice, arriva il rosso più bello di sempre dietro a un microfono. Josh Homme sculetta, ammicca, chiava la chitarra e invoca tutti i fantasmi del Joshua Tree in cui vive. Partono a razzo con Little Sister e per un’oretta il concerto fila spedito sui pezzi degli ultimi anni. Homme non cambia mai chitarra. Troy Van Leeuwen tiene in piedi il concerto da solo, volteggiando sulle punte con un paio di scarpini di pelle bianchi e suonando la sua Fender Jazzmaster Signature.

Foto: Gabriele Acerboni/Pistoia Blues Festival
Non mi annoio mai. La band ringrazia per la splendida cornice. In realtà è Tristoia che dovrebbe ringraziare loro per averla resa speciale perché di solito è un mortorio. La folla si carica, sono a sinistra del palco sulla transenna, vedo perfettamente le mani dei chitarristi e la cosa mi emoziona. Josh Homme suona quasi tutto col dito medio, fa un vibrato che è inspiegabile, se la chitarra è il cazzo lui è l’erezione. Canta bene, non sbaglia mai nonostante l’impianto. Vedo una cosa mai vista prima: un bambino estratto dal pogo. Forse 11 anni, completamente agitato, con la madre appresso più matta di lui. Lo tolgono e ricomincia. La gente poga più forte. Poi iniziano i pezzi vecchi e viene giù il mondo. Josh Homme invita i “motherfuckers” a fare casino. Onde di calore, puzza di ascelle, spinte. Datecene ancora! Make It Wit Chu, Monsters in the Parasol, You Think I Ain’t Worth a Dollar, But I Feel Like a Millionaire sono inesorabili. Si chiude con Go With the Flow, No One Knows e Song for the Dead.
Non se ne fanno più di pezzi così. Non si provano più emozioni così. E ora chiamateci vecchi, come è naturale che sia.













