Rolling Stone Italia

Nick Cave a Pompei: crogiolarsi nel buio

In un anfiteatro colmo di gente, ha incantato con il solo uso della sua voce e di un pianoforte. E, vabbè, anche di Colin Greenwood dei Radiohead al basso

Nick Cave a Pompei. Foto di Pietro Previti

Ci ho pensato e ripensato: chi mai al mondo riesce a tenerti due ore e quindici minuti incollato alla sedia, in ammirazione, mentre suona un concerto per solo piano e voce?

Ci ho pensato e ripensato e, in questo momento, al di fuori di Nick Cave ieri sera nell’anfiteatro di Pompei, mi viene in mente solo gente tipo Chilly Gonzales. Quindi sostanzialmente un comico con il piano. Anche il signor Cave ha i suoi momenti comici, grazie al cielo, tipo quando avvisa il pubblico delle tribune romane che Balcony Man è dedicata a loro, perché sono più o meno su dei balconi, mentre quelli del parterre «must shut the fuck up», scatenando ovviamente una risata roboante.

Sono comunque piccoli momenti di spensieratezza in un live che, conosciamo il tipo, non lo è. Già solo il fatto di partire con Girl in Amber, una canzone scritta per caso nel 2014 e che poi ha trovato un senso solo nel 2016, dopo la morte del figlio quindicenne Arthur. Susie, la moglie di Nick, ha sempre avuto paura del potere profetico delle canzoni del marito. Lui stesso lo ammette in One More Time with Feeling, documentario straziante, sempre del 2016, che parla appunto del lutto per Arthur e di ciò che ne è scaturito, ovvero Ghosteen.

Nick è il primo a non farne un mistero: le sue canzoni parlano perlopiù di ansia, frustrazione, paura. E in qualche modo possono prevedere certe cose che succederanno. Dopotutto, il pessimista è sempre più preparato dell’ottimista. E quando queste cose succedono, come la morte davvero stupida di un quindicenne che si prende un cartone di LSD per la sua prima volta e cade da una scogliera, il mondo rimane lo stesso «ti guardi allo specchio e vedi la stessa persona di ieri, ma sotto la tua pelle c’è un’altra persona» racconta nel documentario il cantante dei Bad Seeds, con il suo unico timbro grave e solenne. «Per cui, là fuori, devi rinegoziare la tua posizione nel mondo».

L’assenza, la perdita, il vuoto dopaminico, il buio dell’anima dopo un evento traumatico: Nick Cave non è un romantico tipo Victor Hugo, che comprendeva i suoi patimenti ma non ci si crogiolava. Anzi, gli stavano proprio sul cazzo. Nick Cave semmai è più come Coleridge, Goethe, Scott, quindi fa tesoro della sofferenza per trarne una forza sovrumana, quella di un sessantasettenne che ne ha passate di ogni (per inciso, Arthur non è l’unico figlio che ha seppellito: c’è anche Jethro). Eppure, nelle dita sul piano, nella voce sul microfono, nello sguardo penetrante, Nick Cave emana un’energia devastante, capace appunto di tenerti lì, su una sedia, in estasi per due (!!) ore consecutive.

Parte del merito va anche a Colin Greenwood dei Radiohead, con lui sul palco, che con il suo basso ha apportato un’ulteriore gravità alla mano sinistra del pianista, allargando e abbassando di molto lo spettro delle basse frequenze.

«Penso che sto perdendo la mia voce, l’ho appena catalogata nelle cose perse», confida con tono lugubre nel documentario il cantante australiano. «La mia voce, il mio iPhone, il mio giudizio, forse la mia memoria. Cazzo». Secondo lui la vita non è una storia, come in realtà vorremmo che fosse. L’arco cambia per chiunque, a parte nascita e morte, ma l’unica certezza è che “decadi e diminuisci”, nel senso che ci vuole sempre più sforzo per fare quello che hai sempre fatto. È innegabile. Chiunque potrebbe confermarlo. Ma io non riuscirei neanche nei miei sogni più ubriachi a suonare 24 canzoni dei Bad Seeds col pianoforte e prendermi un boato di applausi ogni volta che alzo gli occhi dagli 88 tasti.

Iscriviti
Exit mobile version