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“Fucking fucked” coi Muse all’Alcatraz

Ieri sera Bellamy e i suoi sono tornati a suonare in un club in Italia. È stato un concertone (corto, però), un esorcismo fumettistico delle psicosi contemporanee. Timbri pazzeschi, riff esaltanti, tanto mestiere

Foto: Monelle Chiti

Sarebbe da abbracciarli, sarebbe da prenderli a scappellotti. S’è capito oramai che è impossibile rinunciare a una delle due nature dei Muse. Bisogna prenderli così come sono, il bello e il meno bello, e comunque il primo supera di gran lunga il secondo. Lo pensavo ieri sera all’Alcatraz di Milano dove Matt Bellamy, Dominic Howard e Chris Wolstenholme, affiancati da Dan Lancaster alle tastiere (ma anche a percussioni, chitarra e cori), facevano cantare al pubblico che “we are fucking fucked”, assordandomi. Hanno suonato per un’ora e mezza scarsa tirando fuori un suono gigantesco e il loro (grande) mestiere. Non è stato uno show extralarge da palasport, ma un concerto giusto per un posto come l’Alcatraz, uno di quelli che ti fa pensare: ma vedi che si può ancora comunicare con gli strumenti. Sembra scontato, ma è il 2022 e scontato non è.

E insomma, eccoli i Muse di fronte a 2000 e passa persone sovreccitate, saltanti, urlanti, giustamente felici nel godersi un gruppo da stadio in un club che già in passato ha ospitato star che per un tour o per un’occasione speciale tornavano a una dimensione più “umana”, da David Bowie a Peter Gabriel. Le due anime, dicevo. Da una parte ci sono i rocker che nei momenti più folli e spericolati, anche dell’ultimo Will of the People, sono musicalmente sopra le righe ed eccessivi. È voluto e va bene così, perché è il loro modo di leggere il tempo assurdo in cui viviamo. E di questi momenti ieri a Milano ce ne sono stati in quantità, specialmente a inizio e fine concerto. Mettiamola così: non è musica che cerca d’alleviare le paranoie, è musica che le vuole amplificare.

L’ultima volta che ho visto i Muse erano al Forum di Assago. Era il 2016 e loro suonavano dietro a veli che li facevano sembrare marionette manovrate da un potere occulto, per l’arena volava un drone a forma d’aereo spia. Gli show che stanno facendo in questi mesi in club e teatri sono tutt’altra cosa. Niente apparato scenico, niente effetti speciali, niente droni, solo luci e musica a tutto volume: riff mostruosi, timbri talmente effettati da sembrare irreali, una ritmica implacabile, il suono della chitarra e della batteria che si “mangiano” il resto (e qualche backing track). È tutto straordinariamente carico esagerato distorto melodrammatico. Alcune non sembrano neanche canzoni, ma giuramenti solenni. E quando mancano le composizioni, c’è sempre l’energia.

Foto: Monelle Chiti

Dietro a questa musica che non prevede sottigliezze ci sono un talento assodato, l’idea del rock come forma d’intrattenimento viscerale e spettacolare, un’inclinazione ad abbandonarsi a un’enfasi fuori scala (e la voglia di dare al pubblico dei club una scaletta originale, con pezzi come The Gallery o Minimum che però smorzano l’entusiasmo). C’è l’idea di raccontare il mondo in fiamme non in modo rabbioso, ma suscitando tramite il sovraccarico sonoro uno stato d’euforia collettiva. E accidenti, verso la fine di Knights of Cydonia mi sono fatto prendere dal sentimentalismo. Mentre Bellamy e un migliaio di persone cantavano in coro che è il momento di lottare per la sopravvivenza, i ragazzi saltavano e correvano nel circolo del pogo in platea. M’è parso un momento che urlava vita in questo periodo mortifero.

E poi ci sono gli altri Muse, i mestieranti che conoscono la storia del rock e fanno un uso smodato non solo delle citazioni – da Morricone a Hendrix, dai Rage Against the Machine a Bach – ma anche delle assonanze dei loro pezzi originali coi repertori dei grandi del passato. All’Alcatraz ad esempio s’è sentita Liberation, la canzone di Will of the People spudoratamente modellata sullo stile dei Queen anni ’70. Credo l’abbia detto Wolstenholme a proposito di Cydonia: 40 anni di rock compressi in sei minuti. A proposito di ieri sera, direi invece 50 e passa anni di rock compressi in un’ora e mezza. Sono gli stessi Muse mestieranti che tirano fuori pezzi mediocri come Compliance. Ecco, in quei momenti vorresti afferrarli per le spalle, scuoterli e dire: ma siete pazzi, ma che fate, voi siete molto meglio di così. Ma in fin dei conti i primi Muse ti fanno scordare i secondi.

Foto: Monelle Chiti

In un club, senza l’armamentario scenico che ne amplifica i significati, anche la grande psicosi messa in scena nei testi sembra meno rilevante, o forse semplicemente sconfitta da quel rito collettivo che è pur sempre un concerto. Con un gruppo così, non è neanche male essere “fucking fucked”. A volte però viene voglia di sentire testi più articolati. E invece niente: molte canzoni ascoltate ieri mettono in scena una netta divisione tra un noi e un loro, tra vittime e carnefici, tra gente comune e superpotenti, insomma tra buoni e cattivi. Se i Rage Against the Machine, uno dei riferimenti di questi ultimi Muse, spacciavano questo manicheismo come realismo proletario, Bellamy lo trasporta forse suo malgrado nel campo della fantasia borghese.

Mentre ascoltavo Kill or Be Killed, col suo riffone magari risaputo però esaltante, pensavo che una cosa accomuna gli uni e gli altri Muse, quelli che esorcizzano le paure a colpi di staccati mostruosi e quelli che scrivono canzoni al di sotto delle loro possibilità, quelli che vorresti abbracciare e quelli a cui vorresti dare (bonariamente) uno scappellotto. E questa cosa è il kitsch. Voglio dire che la loro musica è un oggetto che vuole essere artistico, ma è volutamente e talmente grossolano da lambire il cattivo gusto. Ma a volte ci si scorda che nel rock, il vecchio rock intendo, l’eccesso e il cattivo gusto possono essere valori. E così uscendo dall’Alcatraz ho messo a tacere il fighetto che dentro di me ripeteva che i Muse non sono cool e ho pensato: questi quattro m’hanno fatto divertire e m’hanno fatto intravedere l’apocalisse. E poco importa se non era 1984, ma solo Halloween.

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