Rolling Stone Italia

Metti una sera a Londra con Herbie Hancock

Quando arriva sul palco sembra un nonnino, quando suona un ragazzino. Al Barbican per ascoltare uno dei giganti del jazz e della fusion che a 85 anni ancora si diverte e ci diverte un mondo. E che band...

Foto: Emile Holba

La Barbican Estate è uno dei massimi esempi di brutalismo architettonico britannico. Un complesso abitativo enorme con scale, ballatoi, ponti, un dedalo in cui è facilissimo perdersi. C’è un punto di riferimento al centro di questo labirinto ed è il Barbican Center, uno dei poli culturali più importanti di Londra. Museo, cinema, teatro, sala concerti, Barbican è una di quelle istituzioni che definire preziose è assai riduttivo. Anche per questo quando Herbie Hancock è salito sul palco e ha salutato il pubblico dicendo «Venire a Londra e suonare al Barbican è come essere a casa» un filo d’emozione c’è stata, pur sapendo che una città è come una bella donna, le si fanno i complimenti a qualunque latitudine. Ma a parte questo, sentire questa leggenda del jazz nella sala del Barbican, con un’acustica tra le migliori del mondo, ha un senso.

A Londra si ferma tre giorni Hancock, una mini residency dal 24 al 26 luglio che ha registrato facili sold out. E a ben vedere. Lui, 85 anni compiuti ad aprile, è la dimostrazione che la musica aiuta a restare giovani. Quando arriva sul palco sembra un nonnino che ti sta per suonare la ninna nanna, ma è tutta una finta. Si divide tra il pianoforte e la sua tastiera Korg, accompagnato da una band di fedelissimi fenomeni del jazz. Terence Blanchard alla tromba, «un’intera sezione fiati composta da un solo uomo», e all’occorrenza anche tastiera di supporto. Blanchard, per la cronaca, ha anche incidentalmente due nomination all’Oscar nel cv, entrambe per film di Spike Lee, BlacKkKlansman e Da 5 Blood. James Genus al basso, lo stesso strumento che suona da 24 anni nella band che accompagna gli artisti durante il Saturday Night Live. Jaylen Petinaud alla batteria, 26 anni, «sono solo un paio d’anni che suona con me, ma è un musicista meraviglioso. E come lui ci sono molti altri musicisti della sua età con lo stesso talento. Il futuro del jazz è in buone mani». Grazie Herbie, ora ci sentiamo molto meglio. E infine, Lionel Loueke. Di chitarristi così ce ne sono pochi al mondo. Nel pezzo di apertura del concerto, quella che Hancock ha definito la Ouverture, un medley di improvvisazioni e vecchi pezzi che inizia con la classica sonorità del suo “prehistoric predator”, cavallo di battaglia che in questo caso vuole anche sottolineare lo scavare nel suo passato discografico, Loueke reinventa la chitarra in forma di spinetta barocca con un’infusione di bossa nova e suggestioni africane. Meraviglioso.

Ma veniamo al concerto. Sette pezzi partiti con questa apertura di una ventina di minuti in cui si capisce come sarà la serata. Hancock sembra trattenersi, lascia spazio alla band, ogni tanto lo si vede quasi indeciso sul da farsi, se restare al piano o passare alla tastiera. Si diverte molto con la sua Korg, d’altronde è stato un pioniere dell’elettronica nel jazz, ma ha anche avuto il privilegio di suonare con i più grandi. Per questo il secondo pezzo è un omaggio a un amico «per cui non ho versato una lacrima quando l’anno scorso è morto, perché lui è sempre qui con noi, anche stasera». Parla di Wayne Shorter, e la versione di Footprints con cui lo celebra è magnifica. Si passa poi al repertorio di Herbie con Actual Proof, un compendio della sua anima funkydurante la quale Genus al basso si cimenta in alcuni momenti di altissima scuola.

Hancock non ha più l’energia degli anni migliori, ma dirige la band verso vette musicali altissime, lasciando ampio spazio ai suoi musicisti, come in Butterfly, in cui Loueke e Blanchard si danno il cambio con dei virtuosismi di alta scuola. Il jazz di Herbie Hancock non ha mai smesso di evolversi, com’è giusto che sia, «ogni sera è diverso» dice giustamente sul palco, la scaletta può essere la stessa per tutto il tour, ma ogni pezzo ha qualcosa di profondamente diverso rispetto a esecuzioni precedenti, un’imprevedibilità che rende ogni serata davvero unica.

Foto: Emile Holba

Superata da poco la metà Herbie decide che è arrivato il momento di divertirsi. Si mette alla Korg e con un simpatico effetto robot al microfono inizia a parlare. «Sapete quante famiglie ci sono nel mondo», ci chiede. «Una. Siamo tutti un’unica grande famiglia e dobbiamo ricordarcelo sempre in questi tempi difficili che stiamo vivendo. Specialmente nel mio Paese». Vediamo se Trump se la sentirà di mandare Herbie Hancock a Guantanamo quando rientrerà negli Stati Uniti. Dopo il suo lungo discorso attacca Secret Sauce, che si conclude con un solo di Genus da brividi. E poi, dopo essersi riposato ancora un po’ con Hang Up Your Hang Ups e Spider, ecco che Hancock si alza dalla sua comfort zone tra piano e tastiera e si va a mettere a tracolla l’amata keytar.

Parte tranquillo, si fa per dire, con uno dei suoi pezzi più famosi, Rockit, che dopo oltre quarant’anni continua a essere un brano all’avanguardia, perennemente plasmabile tra elettronica, funk e world music. E poi, immancabile, la chiusura con Chameleon, durante la quale questo giovanissimo ottantacinquenne si mette a jammare con Genus e Loueke, saltando sul palco come un ragazzino, facendo volare le dita sulla keytar senza mai un’esitazione o un inciampo. Dovevano essere 90 minuti, alla fine si è concesso per due ore e un quarto, questo signore che nella vita ha suonato con Miles Davis e Dexter Gordon, tanto per citare due di passaggio, e che ha esplorato il jazz in tutte le sue forme. Il 24 luglio 2025 al Barbican ci ha regalato una lezione di due ore sulla sua carriera.

Saluti finali, standing ovation, non ho contato i minuti di applausi come a Cannes, perdonate, ma sono stati il giusto, e dopo avere stretto mani, baciato bambini e benedetto le folle, Hancock è sceso dal palco correndo. Non andate in palestra, compratevi uno strumento e suonate tutti i giorni, camperete più a lungo.

Iscriviti
Exit mobile version