Quante chiacchiere, sui Fontaines D.C., che dovevano salvare il rock, l’indie, il post-punk tutto messo insieme e pure, probabilmente, di più. Quante chiacchiere per il gruppo di cinque ragazzi, Grian Chatten, Conor Curley, Conor Deegan, Tom Coll e Carlos O’Connell, partiti come “tipicamente irlandesi” nell’energia, nella voglia di spaccare, e approdati, per ora e con Romance, a un “tipicamente cool”: all’apparenza rivoluzione, nei fatti conservazione.
Be’, ok, di tutto l’effetto nostalgia s’è scritto, le influenze non mancano in nessuna band, un pezzo parte come American Idiot, un altro come Everlong, rubando qua e là. Inventare è copiare con stile e di sicuro i Fontaines D.C. lo fanno. Appena reduci dal Primavera Sound di Barcellona, dove la loro performance aveva destato qualche dubbio o, per meglio dire, non aveva abbastanza calamitato dagli altri palchi, è la seconda volta in meno di un anno che passano dall’Italia – l’ultima, prima delle date di Bologna al Sequoie Music Park e di Roma, era stata all’Alcatraz di Milano lo scorso novembre.
Repetita iuvant, per lo show di ieri sera al Carroponte nel contesto di Unaltrofestival? Giovano di sicuro, perlomeno a levare di mezzo la questione: ma se lo meritano davvero, questi qua? Sono davvero quelli che ci faranno tornare a sentire qualcosa, gli anni d’oro ma anche nuovi a venire, ah, signora mia…
Quello che posso dire è che il pubblico milanese, ieri sera, era tipo – e sottolineo tipo – quello di un concerto di Lorenzo Jovanotti: “faccio un mix”. Un mix di età, di conformazioni sociali (famiglie, single, accoppiati), di estrazioni musicali, cioè chi ha visto il rock “vero” e chi c’è arrivato dopo, e poi non si capisce se, dei ragazzini e pure dei bambini che si vedevano in giro, erano stati gli uni o gli altri a tirare: se i grandi o se i piccoli, ma poi, ma i Fontaines D.C. vanno su TikTok? Questa è una domanda che merita un’esplorazione.
Quello che deve, per forza, essere uniforme è il ceto sociale, visto che il biglietto costa quello che costa, 50 euro, e se si fanno due paragoni alla fine non è nemmeno così tanto, purtroppo. La prima fila? Impacchettata da ore, chissà da quanto son qua, impossibile. Solo un paio di schermi accanto al palco trasmettono le immagini per chi non può godersela come vorrebbe. C’è l’aspetto cunicolare di un club, verrebbe da dire “intimo” ma la verità è che il suono, già a metà ressa, si disperde nelle direzioni che vuole. Viene una paura: dove si metteranno tutti, visto che è sold out?
La risposta il pubblico è costretto a tirarsela fuori, per non farsi venire una sincope da assembramento: nel comodo prato sempre sulla sinistra del palco, provvisto di ogni amenità tra pizza, polpette, panini e birrette. Si crea una situazione Woodstock senza Summer of Love, accampati con un rassegnazione. Tutto bene, se fossimo a una sagra di paese. Era quello che ci si poteva aspettare da un concerto dei Fontaines D.C.? Oddio: di sicuro, l’effetto-sorpresa è stato inaspettatamente incluso nel biglietto.
Mentre una folla variegata si assiepa, le cronache dal palco che dicono? Forse che i Fontaines D.C., e qualche briciolo di vox populi raccolta ieri tra chi c’era anche a novembre parrebbe confermarlo, sono un gruppo da interni. Mi viene da aggiungere, anche da palco più piccolo, o un pochetto meno profondo, perché il frontman Chatten è l’unico che un po’ lo spazia, lo occupa, e in questo senso l’opening act degli Shame mette in riga gli headliner, con il bassista Josh Finerty che fa capriole in lungo e in largo sulla pedana e pure la (classica) scamiciata del cantante Charlie Steen. Peccato e un po’ straniante, chi scrive aveva assistito al live dei Fontaines D.C. allo Sziget Festival 2024 e, insomma, avevano spaccato.
Colpa del pubblico? Ma no, per carità, per quanto variegato alla fine il sottopalco è presente, su le mani, saltano, un po’ di spontaneo crowdsurfing. Chatten non interagisce quasi per nulla. Un grazie arriva, per il resto le parole sono quelle della scaletta, che scorre veloce e mischia il vecchio e il nuovo del repertorio della band. Si parte con Here’s The Thing (il cantante aveva detto in un’intervista a Rolling Stone US che avrebbe voluto sempre aprire i concerti, e almeno a Roma e Milano ce l’ha fatta), arriva una Jackie Down the Line con chitarra acustica, ci sono tutte quelle che contano. Roman Holiday, Death Kink, Boys in the Better Land, Before You I Just Forget, Horseness Is the Whatness, serviti tutti, fan della prima e della recente ora. Le track di Romance arrivano soprattutto in chiusura: Favourite, Romance, Desire, In the Modern World. Una I Love You di recupero da Skinty Fia e via che si chiude con Starbuster, le ultime canzoni sono un crescendo e finalmente, dopo che sembrava ci si volesse trattenere, il Carroponte esplode. Si chiama edging, nel gergo sexy di chi sa: spostare più in là il limite dell’orgasmo finché non è intenso il doppio.
Nell’attesa di mezzo, però, Chatten performa una serata sottotono dal punto di vista canoro e ad altri tratti, passando per il prato, si ha l’impressione che i listening party suonati live poi non dispiacciano. Un po’ alla bivacco. Che cos’è successo? Non lo so. Qualcuno era scontento, qualcun altro no. I Fontaines D.C. sono diventati mainstream? Sì, tagliamo la testa al toro e non pensiamoci più. Però almeno, a giudicare dal pubblico, potrebbero incuriosire qualche giovane ascoltatore a interfacciarsi con la storia di un genere musicale nato come rivolta, vaffanculaggio, e pure sfogo personale. Anche quando temiamo che questo sia stato perduto per sempre, dietro la patina cool di una capigliatura tinta di rosa.