Quando ad aprile lo avevamo intervistato per la nostra cover story, aveva parlato dell’ultimo tour negli stadi, quello di questa estate, come della chiusura della sua trilogia dell’identità. La trilogia – composta da Persona, Noi, loro, gli altri ed È finita la pace, i tre album ancora oggi nella top 30 dei dischi più venduti nel nostro Paese – che dal 2019 a oggi ha proiettato Marracash nell’Olimpo della musica italiana. Il rapper di Barona, però, aveva forse bisogno ancora di un contatto umano prima di congedarsi: un ultimo passaggio nei palazzetti, dieci date per riavvicinarsi a quel pubblico che negli stadi forse gli sarà sembrato tanto grande quanto distante.
In fondo Marracash cerca solo dell’intimità. E la prima delle tre date al Forum di Milano – che arrivano dopo l’esordio di Eboli e quelle successive a Bologna e Firenze – sembra una conferma. Nonostante una mega produzione alle spalle, Marra non vuole stare sul palco, frontale al pubblico. Vuole starci in mezzo. E nelle due ore di show rimane prevalentemente sulla lunga pedana che lo conduce fino a metà palazzetto dove, guardandosi attorno in qualsiasi direzione, può vedere l’amore della sua gente che canta ogni ritornello, che ribadisce ogni barra, che sottolinea ogni punchline.
Marra sembra felice. E parlando di uno che ha fatto della sua eterna infelicità un monumento, e che in L’anima si descrive come “m’hanno detto che ho gli occhi tristi”, è già una notizia. Anzi, è la notizia. Come nel suo ultimo È finita la pace, infatti, lo show non è infarcito di “stessi producer e stesse guest / stessi argomenti e le stesse reference”, ma è un dialogo che il rapper porta avanti da sé. Certo, arrivano Lazza, Blanco, Filippo Graziani e 22Simba, ma sono figuranti in un racconto lunghissimo, in un monologo in cui Fabio e Marracash spesso si ritrovano a parlare con la stessa voce. Dopo le paranoie numeriche raccontate sempre nella nostra cover story («Ho fatto delle scelte in questo disco forti, tra tutte quella di non avere featuring, di uscire senza fare marketing né promo. Ho evitato delle cose che sembravano inevitabili e però in qualche modo pensavo che non ne avrei pagato il prezzo. Invece un po’ l’ho pagato»), gli stadi, la classifica e i palazzetti sembrano aver finalmente disinfettato – almeno per ora – le incurabili ferite del king del rap. E l’amore di Milano, della sua casa, è acquasanta sulle sue stigmate.

Foto: Andrea Bianchera
Perso nell’abbraccio di un popolo che lo ha eletto a voce della propria coscienza, il “poco di buono” della scena quando sputa rime è inarrestabile. Nelle oltre trenta canzoni in scaletta (raccolte principalmente dai tre album e da Santeria, il disco collaborativo con Guè, oggi assente), è accompagnato da una band di quattro elementi guidata dal sodale Marz, colui che gli ha curato il suono dall’inizio di questo recente percorso. Lui dal palco dice che aveva in mente «un concerto rock», e a suo modo a volte ha ragione. Il suono esce bene, compatto, semplice come le produzioni che hanno scandito questi anni di conquista. Non sono (né su disco né qui) la parte più forte del suo repertorio, ma, come si dice in questi casi, è tutto funzionale. E quando le cose funzionano, è sempre un bene.
Ciò che funziona in maniera ottimale e chiara, invece, è la narrazione del palco, dai visual agli effetti speciali della serata. L’estetica da laboratorio in cui viene incubato questo nuovo Fabio Marracash, la presenza ambigua di certi figuranti col camice e delle loro scrivanie coi computer al centro della scena, la crew di ballerini hip hop, la citazione di una scena di Humble di Kendrick Lamar ripresa, forse inconsciamente, nel montaggio video durante l’esecuzione di Dubbi, i musicisti vestiti con un’estetica retrofuturista, l’occhio del Grande Fratello, i robot un po’ magazzino Amazon e un po’ All Is Full of Love di Björk (ma anche un po’ il Multitude Tour di Stromae) sono un mix di idee che spesso non si parlano tra loro. Così lo storytelling, inizialmente molto centrale, con il passare dei minuti viene a perdersi, così come i visual, che spesso ritornano con una ripetitività un po’ sciatta. E se pensiamo alla cura di Marracash nella scelta dei temi, degli argomenti, dei concetti, delle parole, ecco, un po’ stupisce questa certa mancanza di cura del dettaglio estetico. Certo, stiamo spaccando il capello, ma quando un artista porta sul palco tanta ambizione e grandiosità, è giusto tener d’occhio tutti i particolari. È così che si costruiscono le grandi storie. Così come Marra, nei suoi testi, ci ricorda le cose che non vanno nel music business, nella società, in noi.
Nonostante questi dettagli fuori posto figli di una certa professionalità – quella della produzione di un palco, in cui l’Italia è mediamente ancora molto indietro – Marracash per tutta la serata ha ribadito che non c’è un rapper come lui da queste parti. In questi mesi, nello stesso palazzetto, sono passati mostri sacri del genere come Fabri Fibra e Neffa. Il primo ci aveva ricordato quanto il rap italiano gli sia debitore, mentre il secondo quanto sia ancora una luce nella musica (e nel rap) in Italia. Marracash, invece, ha voluto ricordare ancora una volta quanta strada si può fare dalla strada. E quanto oro si può trovare anche nei piccoli corsi d’acqua di una vita difficile e complessa a tutte le età, fatta di mancanze e depressioni feroci.
«Non sono mai stato vittima di nessuno se non di me stesso», proclama orgoglioso a inizio concerto. E oggi, con quel sorriso e quell’abbraccio della sua gente, sembra sia finito il momento di punirsi. La pace è iniziata. Almeno per questi giorni. A volte, sì, bastano le briciole.











