Mai dare per finiti gli AC/DC: la recensione del concerto a Imola | Rolling Stone Italia
Angus e Jonno non mollano

Mai dare per finiti gli AC/DC

Un anno fa a Reggio Emilia sembravano arrancare, ieri si sono presi la rivincita. Non sono una macchina del tempo, sono una macchina da guerra. La recensione del concerto all’Autodromo di Imola

Sfoglia la gallery 25 Foto

Se c’è una cosa che ho imparato ieri sera, è quella di non dare mai per scontati (e finiti) gli AC/DC. Un errore, a mia parziale discolpa, frutto dello show di un anno fa a Reggio Emilia, che giungeva dopo anni di inattività e il ritorno di Brian Johnson dopo i noti problemi di udito che ne avevano causato il momentaneo ritiro dalle scene. L’anno scorso sembravano davvero sul punto di mollare: Johnson arrancava, la macchina ritmica (anche quella completamente modificata) non era sempre all’altezza e Angus Young, pur sempre indemoniato, dava l’impressione di suonare più con la memoria che con il cuore. Mai prima di allora ero uscito da un concerto degli AC/DC con la morte nel cuore piuttosto che con la voglia di salire in macchina e risentirmi tutta la discografia nel viaggio verso casa.

Ieri sera, invece, è andato in scena un concerto che ha spazzato via ogni dubbio: gli AC/DC sono tornati e suonano belli vivi. Ed è poetico che l’ennesima rinascita di una carriera costellata da eventi che avrebbero distruttosnche l’Armata Russa porti il nome, in primis, di Johnson. Alla soglia dei 78 anni, con l’immancabile coppola che sembra ormai parte integrante del suo cranio e quella voce roca come carta vetrata bagnata nel Jack Daniel’s, Jonno è salito sul palco con una grinta da ventenne. Niente affanno, niente cedimenti: solo urla lancinanti, sorrisi da ragazzino e la presenza scenica che mancava nei concerti precedenti.

Si vede che sta bene, porta avanti i brani anche quando la musica si ferma, intrattiene di continuo il pubblico, si diverte in modo sincero. Se a Reggio Emilia era sembrato un ospite d’onore, ieri a Imola era di nuovo il frontman degli AC/DC. E lo sapeva. Lo sentivi nei versi selvaggi di Back in Black, sparata come secondo pezzo subito dopo If You Want Blood, nella rabbia blues di Shoot to Thrill, nella vendetta urlata di Thunderstruck. Johnson è tornato per restare.

Per compensare l’inevitabile calo di voce che lo accompagna da lungo tempo, ma che ancora non ne sminuisce l’impatto generale, non spinge continuamente senza sosta, col rischio di essere afono al quarto pezzo, ma ha completato definitivamente la sua trasformazione in un bluesman di razza. La sensazione è che in questo momento della sua carriera riesca a calarsi addirittura meglio nei brani di Bon Scott, piuttosto che in quelli più violenti della sua era (che forse non a caso in scaletta sono uno in meno di quelli scritti da Scott).

Foto: Giuseppe Craca

I pezzi migliori della serata, se togliamo le super hit da Virgin Radio, sono forse High Voltage, Shot Down in Flames e Sin City. Merito anche della sezione ritmica, anche quella ora decisamente rodata e a fuoco, che più che accompagnare trascina letteralmente la band come un motore V8 a pieno regime. D’altra parte, non è un mistero che quello sia sempre stato il marchio di fabbrica musicale del gruppo. Chris Chaney e Matt Laug hanno portato freschezza, precisione e soprattutto muscoli, non limitandosi a replicare il sound di chi ha fatto la storia della band: lo rispettano, certo, ma ci mettono dentro un groove nuovo, più moderno, senza snaturare una virgola l’inconfondibile marcia AC/DC. Il risultato è che ogni pezzo ha ripreso a camminare a petto gonfio, senza quel senso di nostalgia malinconica che aleggiava dodici mesi fa.

E poi c’è lui, Angus Young. Con la sua uniforme da scolaretto e le ginocchia instancabili, è il Mick Jagger degli AC/DC, stesso carisma da animale da palcoscenico, stesso istinto da sopravvissuto che ti guarda e ti dice: sì, non cambio mai a differenza tua. Angus sa sempre cosa fare, sa quando spingere e sa quando Johnson e il cugino Steve hanno bisogno di rifiatare. Ma soprattutto, come Jagger, ha la capacità di catalizzare ogni sguardo, ogni urlo, ogni fotocamera. Con l’apice di Let There Be Rock, dove si è preso un quarto d’ora di assolo vecchia scuola, ruotando come un derviscio impazzito, con il pubblico letteralmente in trance. È uno showman, sì, ma è anche l’artigiano assoluto del suono AC/DC: ruvido, potente, senza fronzoli, né effetti o stramberie tecnologiche. Una porta diretta sulla metà degli anni ’70.

Chi dice che questi non sono più gli AC/DC non comprende che lo saranno fino a quando Angus deciderà di proseguire. Chi era a Imola ha visto qualcosa di raro: una band che ha sfiorato l’autodistruzione e ha scelto di reagire non con la nostalgia, ma con il fuoco. Non ci sono state dichiarazioni epocali né discorsi celebrativi, come da copione. Solo sudore, riff, e 90 minuti di rock’n’roll che hanno ricordato a tutti che gli AC/DC non sono una macchina del tempo. Sono una macchina da guerra. Al momento, di nuovo perfettamente oliata.

Altre notizie su:  AC/DC Angus Young Brian Johnson