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Mahmood merita brividi globali

Rosalía ha riportato la Spagna nel panorama della musica che conta, Stromae l'ha fatto col Belgio. Se solo sposasse un’idea di intrattenimento ancora più internazionale, Mahmood potrebbe fare lo stesso con l’Italia, come ha dimostrato ieri sera in concerto a Milano

Foto: Sergione Infuso/Corbis via Getty Images

Mahmood arriva alla sua prima data (di tre) all’Alcatraz di Milano dopo una prima metà di 2022 straordinaria. Il suo duetto con Blanco, Brividi, ha conquistato il 72° Festival di Sanremo dopo una settimana perfetta, diventando tra l’altro il brano più ascoltato di sempre in un giorno su Spotify Italia, e portando Mahmood a competere, per la seconda volta, all’Eurovision Song Contest a Torino dove è stato celebrato come un grande divo. Tra le due kermesse, un tour europeo che ha registrato sold out a Parigi, Losanna, Londra e Madrid, il modo migliore per arrivare ben allenati a questo triplo appuntamento meneghino.

Che questo non sia l’inizio di un tour, ma una data che arriva dopo una serie di palchi e di chilometri macinati, è chiaro fin da subito. Il live è coeso, la band (Francesco Fugazza, Marcello Grillo, Elia Pastori, David Blank, Marta Bersani) funziona senza sbavature, Mahmood è comodamente in controllo della situazione; è evidente come la gavetta di questi mesi sia stata formativa. Una tranquillità che traspare non solo nella tecnica canora e sonora, ma anche nella relazione con il pubblico, dove Mahmood si spoglia dal ruolo di idolo per vestire i panni dell’amico cazzaro, con quel suo atteggiamento umano da uno-di-noi, tra battute alcoliche sui gin tonic e conversazioni ironiche, a volte un po’ buffe, altre un po’ cringe, che comunque funzionano. «Voi non sapete quanti concerti ho visto qua dentro», esordisce alla prima occasione, perché è davvero la prima volta su quel palco ed è giusto che ci si arrivi con un pizzico di emozione.

Il concerto scorre fluido tra brani di Ghettolimpo e Gioventù bruciata, dimostrando come in pochissimi anni Mahmood sia già riuscito a costruirsi un solido archivio di hit: Soldi, Brividi, Rapide, Barrio, Klan, Rubini. Un’ora e mezza in equilibro tra urban internazionale e pop all’italiana. Il pubblico è felice, Mahmood a suo agio, la band esaltata. La nostra review del concerto potrebbe anche finire qui perché – di base – tutto funziona per come siamo abituati. Però il compito di chi scrive di musica non è solamente quello di osservare le cose in sé, ma fare un passo oltre. E il live di Mahmood ci permette una riflessione più ampia.

Pare evidente che Mahmood riesca a dare il suo meglio sul palco quando è libero di giocare e flirtare con le sue influenze internazionali, quelle che potremmo definire urban. Nonostante a ricevere maggior affetto siano, per forza di cose, le canzoni più radio friendly, è nell’esecuzione di brani come Klan, Kobra, Talata che accade qualcosa di differente, una vibrazione inedita nel panorama italiano; è in questi momenti che Mahmood usa il corpo con più libertà, attenzione e padronanza, alzando davvero di parecchio il livello della sua performance. Spogliato dalle abitudini sonore italiane, dal brano un po’ emozionale e melenso con strutture ritmiche safe, nonché dall’impostazione da bel canto di un live fisicamente neutro, Mahmood è tutta un’altra storia, una interessantissima storia.

Un tarlo batte in testa per tutta la durata dello spettacolo: come sarebbe il progetto Mahmood, e di conseguenza un suo live, se piuttosto che seguire certi stilemi culturali italiani puntasse forte su un approccio internazionale e urban più performativo, più libero, dedito a un più ampio concetto di intrattenimento (su cui il mainstream italiano dovrebbe iniziare a credere), come fuori dai nostri confini fanno artisti e artiste come – giusto per far alcuni nomi non anglofoni – Rosalía, Nathy Peluso, Arca, Stromae? A differenza degli artisti e delle artiste citate, infatti, quello che manca in questa tipologia di live è quella personalità e quella unicità che Mahmood riesce invece a trovare nella scrittura delle linee melodiche e nella sua personalissima interpretazione del canto. L’attenzione sembra focalizzarsi esclusivamente sulla costruzione di un live solido, suonato bene, un obiettivo giustissimo nell’ottica di fortificare un artista che quest’anno ha superato – e di molto – ogni possibile aspettativa ma che, d’altro canto, sembra una limitazione: per un concerto mainstream di un artista urban-pop questo è uno show davvero poco performativo, poco coinvolgente oltre all’esecuzione del brano in sé, se non per alcuni sporadici momenti, ribadendo una difficoltà costante dei concerti pop italiani di essere – prima di tutto – intrattenimento. È qui che l’idea italiana di show mostra il fianco rispetto a ciò che possiamo fruire all’estero ed è un paradosso se pensiamo a quanto potremmo imparare dagli archivi dei varietà televisivi italiani. Ok la musica, ma il live è uno show d’intrattenimento. E questo in Italia rimane un grosso scarto culturale da colmare.

Mahmood è, probabilmente, l’artista italiano odierno che potrebbe avere le migliori possibilità di imporsi al di fuori dell’Italia, non solamente per un pubblico di expat, ma per il mercato della musica e dell’intrattenimento internazionale, così come Rosalía, Nathy Peluso, Arca, Stromae con la loro personalità e la loro visione lungimirante hanno inserito Spagna, Venezuela e Belgio nella geografia della musica che conta. Non è blasfemo pensare di poter inserire anche Mahmood (e di conseguenza l’Italia) tra quei nomi, ma il percorso per giungere a quel gotha passa anche attraverso i live e il pensiero che ci si mette per costruirli, come – a loro modo e in un altro ambiente sonoro – hanno dimostrato i Måneskin.

Non manca molto a Mahmood, solo qualche gradino e il desiderio di liberarsi dai paletti di certi canoni che su un progetto così interessante finiscono sempre per appesantire il volo. Finito Sanremo, finito Eurovision, finito questo tour, che artista sarà il Mahmood di domani? Siamo davvero curiosi di saperlo.

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