Magnetic Fields a Roma, un’enciclopedia itinerante dell’amore in 69 comode canzoni | Rolling Stone Italia
L’Infinite Jest del pop

Magnetic Fields a Roma, un’enciclopedia itinerante dell’amore in 69 comode canzoni

Due concerti all’Auditorium Parco della Musica per suonare per intero il triplo ‘69 Love Songs’ tra eclettismo musicale, senso dell’umorismo e Stephin Merritt che si copre le orecchie per gli applausi troppo forti

Magnetic Fields a Roma, un’enciclopedia itinerante dell’amore in 69 comode canzoni

Stephin Merritt coi Magnetic Fields a Roma

Foto: Dna Concerti

Stephin Merritt combatte l’iperacusia da quando il suo udito è rimasto danneggiato, così ipotizza, durante un concerto degli Einstürzende Neubauten visto da teenager al Danceteria di New York. Tra i suoni che gli danno più fastidio, bel paradosso per un musicista pop, quelli degli applausi. Non potendoli evitare, quando accade si copre l’orecchio sinistro, particolarmente colpito dal disturbo. Ieri sera, al termine della seconda di due serate in cui i suoi Magnetic Fields hanno suonato nella Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica di Roma, lo abbiamo visto a lungo con la mano sull’orecchio: l’esecuzione integrale delle loro 69 Love Songs, album stracult uscito nell’autunno del 1999 e oggi giustamente celebrato con gli onori del caso, è stata un successo.

Trentacinque pezzi la prima sera, 34 la seconda, in rigoroso ordine di apparizione sui tre dischi di cui l’opera si compone, con Roma unica tappa italiana di un tour europeo che si concluderà a metà ottobre alla Union Chapel di Londra. Una soluzione non inedita per Merritt e i suoi che, era il 2017, anche ai tempi dell’uscita di 50 Song Memoir (un album di 50 canzoni dedicato al mezzo secolo di vita del capobanda, un pezzo per ogni anno di vita) avevano organizzato un tour con due date per ogni città, con tappe anche all’auditorium del Primavera Sound di Barcellona. Assieme a Sam Davol, Shirley Simms, Chris Ewen e Anthony Kaczynski, tutti tranne quest’ultimo presenti anche durante le registrazioni dell’album, Merritt ha fatto il tutto esaurito nella prima delle due serate, e lo ha mancato di poco nella seconda, a cui abbiamo assistito noi di Rolling, per un totale di circa 1300 spettatori.

La folgorazione per scrivere un concept (chiamiamolo così per semplicità) così lungo e stilisticamente eterogeneo pare gli sia venuta a fine millennio in un piano bar di Manhattan. Ascoltando alcune interpretazioni di brani di Stephen Sondheim (uno dei padri del moderno musical, suoi i testi di West Side Story), pensò che anche lui avrebbe dovuto dedicarsi alla musica per spettacoli teatrali. L’idea iniziale non era improntata al minimalismo, diciamo: «Decisi di scrivere 100 canzoni d’amore per presentarmi al mondo». Dopo aver considerato che forse era un po’ troppo, Merritt si fermò a 69, messe giù con abnegazione degna di Stakanov durante turni di scrittura lunghi otto ore al Dick’s Bar, un locale sulla 192esima oggi chiuso. L’album esplora infinite sfaccettature dell’amore (o perlomeno ne esplora 69, che anche per un argomento così complesso non sono pochissime) attraverso narratori di tutti gli orientamenti sessuali. C’è pure una murder pop song (termine che se non esiste andrebbe coniato apposta per i Magnetic Fields) come Yeah! Oh, Yeah! (“Ma che vita triste e scura, stai prendendo un coltello? Davvero uccideresti tua moglie? Yeah! Oh, yeah!”).

Al momento dell’uscita del triplo album, Spin scrisse addirittura che era dai tempi di Cole Porter che non si ascoltavano testi pop così azzeccati. C’è chi ha detto che è l’Infinite Jest della musica pop e un po’ ci ha azzeccato. Per la lunghezza (banalmente), per la molteplicità dei narratori (tre le voci ascoltate sul palco di Roma) ma soprattutto per il suo essere in grado di affrontare argomenti diversissimi tra loro, tanto che chi lo ascolta senza i testi a portata di mano gode solo la metà. Del resto di fronte a titoli come The Death of Ferdinand De Saussure come fai a non desiderare di saperne di più? Siano dunque benedetti Laura Ballance e Mac McCaughan dei Superchunk, che non si sono fatti spaventare dalla mole del lavoro (un doppio Sandinista!, in pratica) e l’ hanno pubblicato con la loro Merge.

I Magnetic Fields a Roma. Foto: Dna Concerti

A Roma violoncello, ukulele, chitarre e sintetizzatori hanno permesso di portare in sala Petrassi tutto questo ben di Dio, with a little help from qualche suono campionato. Sul palco, un’atmosfera quasi da studio, tutti seduti tra poltrone e poltroncine, con il capobanda appollaiato sulla destra alle prese con manopole, triangoli, tamburelli e campane. I Magnetic Fields sono un’enciclopedia itinerante del pop. L’amore a cui il loro album è intitolato, ci azzardiamo a dire, è solo un pretesto per confezionare (e in questo caso portare sul palco) un’opera che è anche un grande divertissement fatto (bene) di mille stili, spesso attraversati da una vena di humour. Il miracolo, a Roma, è che si passa da una canzone all’altra senza mai disconnettersi dalla visione di Merritt. Ed è tutto l’insieme che conta, non tanto se ci hai trovato dentro il crooning di Scott Walker o le armonie dei Beach Boys, i colori degli XTC o i synth degli Human League. Senza dimenticare che il gruppo preferito di Merritt sono gli ABBA.

Nel concerto non c’è nulla di improvvisato, valuti ciascuno se è un bene o un male, ma si vede lontano un miglio che lo spettacolo è rodato (già molte date americane alle spalle) ed è stato provato a lungo. Pochissime anche le chiacchiere tra un brano e l’altro, e nessun riferimento alla provenienza a stelle e strisce della band, anche se quando Shirley Simms ha cantato che per lei Washington D.C. è il paradiso, ma non grazie a libertà e democrazia, i suoi “no, no, no” ci sono sembrati pronunciati in lettere maiuscole, per così dire.

«Se avete trascurato il concerto di ieri potete solo prendere un aereo per Bristol entro due giorni», scherza Merritt riferendosi alla prossima tappa del tour. I rarissimi «thank you» pronunciati con tono fintamente scocciato fanno parte del suo laconico humour, così come le rare presentazioni delle canzoni. «Questa è sui vestiti che di solito non nomini», dice a proposito di Underwear, che per inciso è una specie di incrocio tra ZZ Top e Depeche Mode, uno dei rari pezzi che mischia stili diversi in uno stesso brano, laddove solitamente invece la singola canzone di 69 Love Songs è caratterizzata da uno stile piuttosto omogeneo al suo interno. «Dopo questa canzone» dice presentando Zebra, l’ultimo pezzo della serata, «ci sarà una pausa di 25 anni».

Per fortuna ieri sera noi c’eravamo, assieme a parecchi spettatori che, abbiamo notato, sono giunti da soli al concerto. Sembravano più del solito, chissà se c’entra con il gruppo in programma. Ma bisognerà scriverlo, un giorno, un pezzo sulle gioie di andare da soli a vedere una band il sabato sera. Soprattutto c’era Stephin Merritt «un William Shakespeare (quello dei sonetti amorosi) rinato in una New York nella quale il CBGB ha traslocato a Broadway» ha scritto Eddy Cilìa in Rock – 1000 dischi fondamentali (Giunti), piazzando 69 Love Songs nei 300 imperdibili. Una definizione troppo bella, sintetica e il più possibile onnicomprensiva per non rubargliela noi qui.

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