Ma quale “effetto nostalgia”, i Blur sono più contemporanei che mai | Rolling Stone Italia
Gioiosi, struggenti e felici

Ma quale “effetto nostalgia”, i Blur sono più contemporanei che mai

Sono perfettamente a loro agio nell’oggi e non ammiccano al passato che, da quanto è sembrato ieri sera a Lucca, non li fa sospirare di malinconia, ma anzi, li gasa a mille. Una celebrazione epocale dei sogni che diventano realtà e di vite diverse che si scontrano

Ma quale “effetto nostalgia”, i Blur sono più contemporanei che mai

Damon Albarn

Foto: Press

Sono le 23 e 45 e le 40 mila persone che sono venute a Lucca per i Blur stanno defluendo ordinatamente fuori dall’aera concerto. E cantano. Cantano “oh my baby, oh my baby, oh why? Oh my?”. Perché alla fine è lei, Tender, la canzone che sarebbe potuta andare avanti e avanti che non ne avremmo avuto comunque abbastanza. Sì, c’è stata la conclusione classica, attesa e intensa con The Universal, c’è stato il salto di tutte quelle decine di migliaia di corpi su Parklife e Girls & Boys, c’è stato il delirio su Song 2 (e qui ci sta, tra un attimo, un piccolo inciso) ma è Tender il vero inno di Damon Albarn, Graham Coxon, Alex James e Dave Rowntree, di cui abbiamo assaporato e quasi toccato quell’amicizia cruciale per il loro fascino. Tender è la melodia che orchestra tutti in una sincronicità piena di sentimento e, come dura fino a quando la canzone è finita, e continua anche dopo, e non si ferma nemmeno quando la festa è finita.

La festa dei Blur, che tra il pubblico di Lucca avevano persone alla loro prima volta e altre che in pochi mesi li avevano già visti a Wembley e al Primavera Sound, mi ha fatto venire in mente tanti aggettivi, ma tra questi non c’è “nostalgica”. Freschi di uscita del loro nono album, The Ballad of Darren (e di questo disco, già amato e cantato, insieme a The Narcissist e St. Charles Square, è stata suonata Barbaric, dopo un annuncio emozionato di Albarn) i Blur sono stati fisici, gioiosi, sfrenati, struggenti, ma soprattutto sono apparsi davvero felici.

L’effetto nostalgia degli anni Novanta non c’è stato, perché loro sono contemporanei, anche quando pescano dal repertorio da Parklife che è del 1994. Sono perfettamente a loro agio nell’oggi e non ammiccano al passato che da quanto è sembrato sabato sera a Lucca, non li fa sospirare di malinconia, ma anzi, li gasa a mille. Ciò che ha reso questa serata così speciale è la chiara impressione che Albarn ami davvero i Blur, come persone e come esperienza.

Qualche immagine fra tutte: il bacio di Damon a Graham, schioccato sul collo, di slancio, di pancia, proprio durante Tender, che gli ha strappato un sorriso sghembo e timido, la pacca sul culo di Alex James (che sa tenere incollata una sigaretta al labbro per ore come ho visto fare a pochi) e le risate piene mentre cazzeggiavano improvvisando, quando al quarto pezzo, Tracy Jack, è saltato tutto, voce, chitarra, tutto. E invece di incazzarsi come avrebbe fatto, probabilmente, la band che più di tutte ha perculato Sanremo, loro hanno fatto quello che fa un gruppo di amici: si sono divertiti. Albarn ha mollato la chitarra e s’è seduto al piano e ci ha tenuti comunque incollati lì, anche se non stavamo capendo che cazzo stesse suonando, anche se avevamo iniziato a brontolare “che non è possibile” che “solo in Italia”.

Non sono i concerti dove fila tutto liscissimo a darti la vera cifra della maestria di una band, ma quelli con gli intoppi, quelli dove, preso in contropiede, devi mettere la pezza. Albarn può essere un musicista notoriamente irrequieto, che fa lo slalom tra Gorillaz, Africa Express e così via, ma la verità che è ci è apparsa di nuovo dirompente, è che con la sua polo Fila, è sempre visibilmente commosso all’idea di condividere un palco con Graham Coxon, Alex James e Dave Rowntree.

Il tratto di apertura approssimativamente cronologico del set porta a casa la velocità affamata dell’evoluzione dei Blur, dall’indie-dance alla petulanza punk agli studi sui personaggi kinksiani allo squall lo-fi, raccontando una storia di ambizione e ambivalenza, di tormenti e passioni, dipendenze e l’impegno, la fatica a tenere assieme tutto questo. Canzoni come Popscene e Beetlebum, che all’epoca suonavano come se stessero prendendo in giro il successo, stasera sono solo gigantesche. Così come il momento di Coxon, Coffee & TV, il lamento di un introverso, venato di uno dei suoi caratteristici anti-assoli, si trasforma in una parentesi di ondeggiamento festanti. Non c’è scenografia, c’è solo il cartone del latte che accompagnava quel videoclip iconico, ma c’è moltissimo Albarn che si abbraccia, si avvinghia alle prime file del suo pubblico, sempre ad un passo, ad un millimetro dal lasciarsi andare ad uno stage diving che non arriverà, ma anche questo è giusto così. Non è stato nostalgico, il ritorno dei Blur, ma ci ha ricordato quanto fosse più interessante la realtà del Britpop rispetto alla caricatura di Cool Britannia, ci ha fatto vedere cosa significasse per una musica così tagliente e piena di carattere saper essere così ampiamente amata, e quanto regge bene, tre decenni dopo.

A Lucca Albarn è il frontman magnetico, nato, come si dice, per stare sul palco, che fa pochi commenti teneri (come quando dice che oggi ha visitato una “basilica that is very peaceful”), che salta e sorride, sorride tantissimo, ma poi si sa anche ritrarre per lasciare a ciascuno dei suoi compagni di band il proprio momento sotto i riflettori. Le abilità chitarristiche di Coxon sono magistrali come sempre, la sua voce è immutata dal 1999, la spavalderia sicura di James ci arriva alla pancia mentre suona la sexy linea di basso di Girls & Boys. E Rowntree, nel frattempo, realizza un assolo fenomenale in Trimm Trabb.

In un certo senso, mi perdoneranno i 40 mila che ci hanno pagato sopra, è Song 2 quella strana nel mezzo di tutto quel repertorio eclettico e avvincente come una pellicola cinematografica. I Blur che sono sempre stati maestri nel mantenere solida la loro roccaforte dove sono delimitate le linee della loro identità, con il canto titanico di Song 2 tornano all’epoca di MTV, ma anche questo è okay, perché è un inciso giocoso, è un branco di lupi selvaggi che corrono, saltano e poi si accucciano sulle ginocchia, ammansiti dal basso di Alex Jame.The Universal ha sempre, e finirà sempre, lo spettacolo, la festa, il ritrovo tra amici. È una canzone del passato ma riguarderà sempre il futuro. Un pezzo profetico di succulenta magia art-pop che fa venire i brividi lungo la spina dorsale. Il rischio della nostalgia è scampato. Piuttosto, è una celebrazione epocale dei sogni che diventano realtà e di vite diverse che si scontrano, e, come mi scrive un’amica qualche minuto dopo la fine del live, di gente che si vuole bene, “perché loro non lo sanno, ma io ai Blur voglio bene e sono venuta a Lucca per dirglielo”. All the people. Davvero.

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