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Ma ci si può far venire il magone a un concerto dei Kiss?

A Lucca la band ha tirato fuori il suo rock’n’roll viscerale e ignorante, per sempre adolescente. Ma un po’ intristisce sapere che è una storia che sta per finire. Uno scontro epico tra malinconia e sangue. E che le lacrime le asciughino i fuochi sparati dal palco

Foto: Sven Hoppe/Picture Alliance via Getty Images

È un periodo di addii più o meno prolungati quello che ci troviamo a vivere da qualche anno a questa parte. Se il Covid ha contribuito a sparigliare le carte e a far durare alcuni di questi tour più del previsto, ormai la sensazione è chi si tratti quasi sempre di veri giri di boa e non di semplici espedienti per racimolare gli ultimi incassi e scappare col bottino.

Dopo aver assistito all’ultimo valzer di Elton John, ancora capace di intrattenere grandi folle senza cedimenti , eppure deciso a passare il resto dei suoi anni in famiglia, temevo di trovarmi di fronte ad emozioni forti, ma  in qualche modo smussate dall’impatto sonoro e visivo dei Kiss. Insomma, un conto è trattenere le lacrime su Your Song, un altro è farlo su Detroit Rock City. Ecco perché, entrando in Piazza Napoleone a Lucca, ero quasi riuscito nell’opera di autoconvincimento di passare una serata senza magoni e nostalgia, all’insegna del rock’n’roll più viscerale e ignorante sulla piazza. E se anche una lacrima fosse scesa, sarebbe stata immediatamente asciugata dalle fiammate che da sempre riescono a scaldare persino l’ultimo degli spettatori nelle retrovie. Uno scontro epico tra malinconia da una parte e sangue sputato, fuochi d’artificio e tricche tracche dall’altra.

Più passavano le ore e più mi riusciva difficile mantenere la calma, tanto da dover passare anche alle maniere forti, alla psicologia inversa. Che poi ormai saranno bolliti, mi ripetevo. Vedere un uomo di più di 70 anni che vola sulla gente è ridicolo, diciamocelo. Oppure: dài che tanto l’anno prossimo ne annunceranno un altro e saremo ancora tutti lì.

L’apertura affidata agli Skid Row sembra portare tutto sui binari immaginati. Nonostante l’assenza, ad onor del vero ormai da tempo immemore, di Sebastian Bach, la band americana dimostra di avere ancora un senso e molte cose da dire. Soprattutto ai nostalgici di quell’attitudine street che aveva caratterizzato il periodo a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’esplosione del Seattle Sound. In pratica, proprio quello che serviva per non pensare al tempo che ci distanziava dall’ultimo saluto ai Kiss.

Quando gli altoparlanti diffondono in diffusione Rock’n’Roll dei Led Zeppelin capisco che il momento è arrivato. «You want the best, you got the best. The hottest band in the world: Kiss!» e subito via di fischioni e amenità varie da capodanno partenopeo sulle note di Detroit Rock City. Il mio piano inizia dunque alla grande, con i primi sei brani che non lasciano spazio a tristezza di sorta. Se cercate impegno e raffinatezze, tornate pure tra una settimana al concerto di Bob Dylan: qui ci sono solo testosterone, maschere e canzoni che, quando sono impegnate, inneggiano al sesso orale. Quello che tutti vogliamo. Perché qui per una sera non esiste politicamente corretto, non esiste tristezza.

Saranno le maschere, ma i Kiss sono sempre in grado fermare il tempo, come se non fossero umani come noi e vivessero in una sorta di bolla spazio-temporale ferma alla metà degli anni ’70. Per quello a un concerto dei Kiss torniamo sempre tutti adolescenti alle prese con i primi pruriti, con le battute grevi e quell’ostentazione che ci aiutava a sentirci sicuri anche delle cose che ancora non conoscevamo. E questo è anche il motivo per cui ridicoli i Kiss non sembreranno mai: perché con il loro circo psicotico ogni volta hanno la capacità di farci tornare giovani. E cosa cerca in definitiva la gente se non qualcosa in grado di frenarne il processo di invecchiamento? La set list, non a caso, è scelta alla perfezione, con incursioni un po’ in ogni era del gruppo. E prima di God of Thunder, come da liturgia, avviene anche il miracolo della liquefazione del sangue di Gene Simmons.

Eppure, c’è un eppure. Al primo momento di cedimento, alla prima vera ballad, crolliamo tutti insieme. Beth serve proprio a quello, a farci sfogare, a non creare in noi traumi futuri da rifiuto dei sentimenti e a liberare l’anima per il gran finale. Dopo l’inevitabile I Was Made for Loving You, ecco dunque uno dei massimi inni alla grandezza e alla stupidità del rock’n’roll. Voglio il rock’n’roll tutta la notte e party tutto il giorno. Mamma mia quante ne sanno i Kiss. Tanto l’anno prossimo saremo ancora lì, come ogni estate.

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