Lucio Corsi alle Capannelle: non un eroe, ma un complice nel sentirsi fuori posto | Rolling Stone Italia
Rock in Roma

Lucio Corsi alle Capannelle: non un eroe, ma un complice nel sentirsi fuori posto

Siamo stati al live del cantautore maremmano alle Capannelle di Roma, entrando nel suo mondo: quello di chi ha deciso che il margine è il centro, che l’assurdo è il senso, che la canzone è un animale mitologico da proteggere e non una piattaforma da scalare

Lucio Corsi alle Capannelle: non un eroe, ma un complice nel sentirsi fuori posto

Lucio Corsi

Foto: Rock in Roma/8G Studio

Il prato dell’Ippodromo delle Capannelle ieri sera era una distesa d’erba bruciata, tagliata male, con la polvere che si alzava quando ci camminavi sopra e l’odore dei kebab che combatteva con quello della birra scadente, caduta. Era un’arena spuria, proprio dove il cemento si mescola alla campagna, dove la città smette di essere città ma non riesce a tornare natura. Era il posto meno adatto per un’apparizione poetica rurale, e quindi il più giusto per Lucio Corsi, che nei posti sbagliati fiorisce meglio.

Lo vedi entrare — assorto, gracile, favoloso — e sembra il cavallo pazzo di una leggenda che si è persa tra le corsie del centro commerciale di Tor Vergata. E invece, pezzo dopo pezzo, parola dopo parola, la sua voce comincia a disegnare un confine invisibile: il prato non è più quello dell’ippodromo, ma un territorio incantato dove può esistere una creatura mitologica, mezzo fantino e mezzo ronzino, che non corre per vincere ma per incantare. E alla fine, con una gara lenta e miracolosa, vince davvero. Il prato, per un’ora e mezza, diventa suo. E noi, spettatori increduli, ci ritroviamo a tifare per un cavallo sfavorito che credevamo non fosse neppure in gara.

Dal primo istante in cui ha aperto bocca e spiegato le ali da lepidottero e una coppia di genitori, invece di osannarlo o urlarne le strofe, hanno sorriso stereofonicamente alla figlioletta cinquenne in mezzo a loro – un po’ ebeti – è stato chiaro che il destino di un nuovo, grande artista musicale italiano si stava compiendo.

Era chiaro anche che quei genitori quasi non ci avevano creduto che la figlioletta gli avesse chiesto di portarla, invece che dalla solita Carolina Benvenga, ma a un vero, fottuto concerto rock. Eppure ieri a Capannelle non è stato il concerto tipico di Rock in Roma. Vedere Corsi suonare e cantare ieri sera è stato come assistere a una collisione cosmica tra due mitologie incompatibili: da una parte la liturgia del concertone — impianti, volumi, LED, la folla che vuole “il pezzone” — e dall’altra lui, che canta di dromedari e di cappelli da cowboy come se fosse la cosa più importante e urgente del mondo. Che poi lo è, se entri nella sua testa o nella sua Maremma fantastica trapiantata in una zolla dell’Appia Nuova, appena smossa a ritmo di filastrocca lunare.

Foto: Rock in Roma/8G Studio

Il primo degli appuntamenti per la serie Ippodromi 2025, che conoscerà una seconda tappa a San Siro per settembre, è stato, così, una parentesi graffa aperta dentro un’estate di certezze foniche, di esibizioni collaudate, di inni da stadio e pose da palcoscenico. Non aveva nulla dei must di un “concerto che funziona”: non le hit da cantare in coro, non la carica da ballare, non l’appartenenza dichiarata. Eppure ha funzionato proprio per questo. Perché, in un’epoca che esige risultati, velocità, posizioni nette e payoff ben scritti, Lucio Corsi si è presentato anche nella dimensione del grande spettacolo dal vivo come un narratore scombinato, un cantafiabe maremmano che non ha fretta di arrivare al punto, un flâneur contadino che calpesta le travi del palco come si attraversa un campo di grano dopo un temporale. Un Peter Pan che entra ed esce dalle quinte – per un “Sorsino d’acqua dissetante” o un nuovo cappello – come entrerebbe e uscirebbe da una tenda di fortuna alzata in camera da letto il padrone di casa di un pigiama party da 15.000 presenze.

Il Lucio Corsi di Capannelle è reduce da una strana traiettoria luminosa: un disco d’oro, un secondo posto a Sanremo, un quinto all’Eurovision e un videoclip con Carlo Verdone in versione apparizione romanesca. Il tour si chiama Estate 2025, ma sembra più una migrazione leggendaria: 28 date tra mare, montagne e ippodromi, in cui si porta dietro i suoi personaggi — il Re del Rave, Francis Delacroix, Rocco delle medie — come se fossero compagni di una scuola mai finita. La sua banda è allargata fino a raggiungere il numero di 14 bambini sperduti, tra coriste, percussionisti aggiuntivi molto carismatici (il grandioso Alex “Pacho” rossi) e ben quattro fiati. Non mancano Tommaso Ottomano e Francis “Delacroix” (feticcio, mascotte, fotografo di scena e perfino chitarrista, nell’ultimo bis), che ci ricordano più di tutti gli altri che stanno giocando a fare un concerto, mentre lo stanno facendo veramente.

La scenografia che Lucio si è portato dietro è un’idea geniale nella sua semplicità: un meta-palco costruito interamente con amplificatori, come se l’intera architettura del concerto fosse il risultato di un sogno adolescenziale proiettato su scala maggiore. È una scelta che racconta tutto: da un lato, il salto di dimensione, il passaggio da culto laterale a voce riconosciuta anche nei grandi spazi; dall’altro, la fedeltà al gesto originario, quello di un ragazzo che suona nella sua cameretta, che costruisce mondi con tre accordi e un amplificatore rubato a un cugino maggiore. Quegli amplificatori, impilati come totem, sembrano gridare: “Va bene tutto, ma non dimentichiamoci da dove veniamo”. E in effetti il palco, visto da lontano, assomiglia a un fortino emotivo, una fortezza di suono costruita per difendere un’intimità che ha scelto di non sparire nemmeno sotto i riflettori.
Il pubblico di Lucio, che continua ad aumentare senza mai diventare massa indistinta, lo segue come si segue un profeta scalzo che, al posto delle tavole della legge, tiene una chitarra scordata e un cappello a tesa larga pieno di racconti veri, falsi, ganzissimi.

I convenuti sembrano ancora più numerosi perché non fanno gruppo, ma costellazione. Sono sparsi, ma collegati. Non vestono tutti uguali, ma si riconoscono a distanza, come i membri di una società segreta che ha deciso di sopravvivere al disincanto e alla playlist algoritmica, rifugiandosi in una forma di fede musicale pre-moderna. Sono ex-bambini cresciuti in case piene di libri, appassionati di astrologia e boschi, fidanzati innamorati in modo bislacco, persone che non hanno mai avuto una passione per il rock “che spinge” ma che si sono lasciati spingere dentro da una musica che ha qualcosa di magico e di concreto insieme.

C’è chi viene con le scarpe da trekking e un vestito lungo da cerimonia pagana. C’è chi fa finta di essere lì per caso, ma conosce ogni parola. Alcuni sono venuti perché lo hanno visto a Sanremo, incuriositi dal modo in cui sembrava un alieno nobile e trasparente, catapultato per sbaglio in mezzo ai fuochi d’artificio. In comune hanno l’idea che la tenerezza sia una forma di coraggio. Che la provincia sia un centro esatto. Che la musica non sia un servizio, ma un incantesimo.

Foto: Rock in Roma/8G Studio

Il rapporto tra Lucio Corsi e il suo pubblico è una forma di riconoscimento muto. Non è adorazione, non è nemmeno identificazione: è una strana, santa alleanza. Lui non li guida, non li consola, non li incita — li chiama con la voce bassa e la visione alta, leggendo le stelle e ignorando le star. E loro hanno portato lì i loro occhi spalancati e le orecchie libere. È un pubblico che non cerca un eroe, ma un complice nel sentirsi fuori posto. Lucio canta per loro come si canta per sé stessi quando si è bambini e si crede che da un prato possa uscire un ufo o una poesia.

C’è una selezione naturale all’ingresso: sono tutti educatissimi. Attorno ai più agguerriti viene lasciato spontaneamente tutto lo spazio vitale necessario, anche perché hanno dai quattro ai sei anni al massimo.
Potremmo chiamarle le Lucille: gomitoli di entusiasmo puro. Si chiamano così non solo perché brillano — e brillano, eccome — ma perché seguono Lucio come si seguirebbe una piccola luce nel buio: non per farsi abbagliare, ma per non perdersi. Sono qui dalle sette al massimo con una convinzione granitica: essere il più possibile vicine al palco fa la differenza. Non sanno ancora esattamente per cosa, ma lo sentono. La mamma di una regge un cartello: “Lucio sei il mio primo concerto. Matilde”.

Le Lucille non sono lì per ballare né per fare le storie Instagram. Sono lì per osservare attentamente Lucio, come si osserva un caso ornitologico raro o un personaggio di un libro che all’improvviso è uscito dalle pagine. Per loro lui è un fratello maggiore favoloso e imprendibile, uno che racconta storie che nessun altro racconta e che sembra parlare proprio a loro — anche quando canta di concetti per loro difficili come dromedari o segni zodiacali. È una questione di risonanza: Lucio sembra sapere che la fantasia è una cosa seria, e loro lo sanno da sempre. Lo ascoltano con l’attenzione religiosa che si riserva alle fiabe raccontate prima di dormire, e quando sorride, anche solo per sbaglio, si guardano tra loro come se fosse successo qualcosa di importantissimo. E quando Lucio sale sulle spalle di un body guard per fare il suo tipo di bagno di folla è un gioco in cui possono identificarsi perfettamente.
Essere una Lucilla non è solo essere fan: è riconoscere in Lucio un alleato nella resistenza contro il mondo che cresce troppo in fretta e sogna troppo poco. E se da grandi continueranno a seguirlo — cosa probabile — sarà perché avranno capito, fin da bambine, che anche quando giungerà il tempo di pagare le bollette, che certe luci non vanno smorzate mai.

Corsi è uno che costruisce i concerti come si coltiva un orto: ci vuole il brano d’apertura che rompe la superficie, quelli centrali che allargano le radici, e un finale che lasci qualcosa a fiorire dentro. Ogni canzone è una pianta: c’è quella che cresce subito e quella che, per sbocciare, ha bisogno di vari cambi d’abito (di cui uno, finale, a torso nudo). E come nell’orticoltura vera, anche nel live le foglie, le gemme, le derive possono arrivare da posti imprevisti e andare in direzioni inattese. Il palco, per Lucio, è un campo vivo, disordinato, dove ogni tanto si perdono le cose: un plettro mangiato da un piano (“I tasti sono i suoi denti”, affabula), un capotasto che non si trova più, Francis Delacroix che sparisce sul più bello e ricompare sul tetto della scenografia, come se fosse stato risucchiato e risputato da un buco nero a raggio corto.

Ma non c’è teatralità in questi momenti. Nessun siparietto, nessuna gag da frontman opportunista. Solo una serissima, incantata solerzia. Lucio si ferma davvero, guarda in giro con l’aria di chi ha perso un oggetto sacro, un talismano, un dettaglio che tiene insieme il tutto. E in quel cercare si capisce che per lui il concerto non è una sequenza di brani, ma un ecosistema fragile in cui ogni elemento — anche il più piccolo — ha diritto alla sua storia. Il plettro dimenticato è una foglia che doveva spuntare. Anche la scaletta può deviare, saltare, risemantizzarsi, se lo richiede il campo.

Il mondo di Lucio, che a tratti sembra più leggero di una zanzara tigre media romana, a tratti forzuto e agilissimo, nello zompare da un livello all’altro di significato o della scenografia, è il mondo di chi ha deciso che il margine è il centro, che l’assurdo è il senso, che la canzone è un animale mitologico da proteggere e non una piattaforma da scalare.

Nel silenzio tra un brano e l’altro dice sempre qualcosa di fuori posto, di dolcissimo, di un po’ comico. Come uno che è stato invitato a una cena seduta ma ha portato il suo cibo da casa, e quando apre la schiscetta ne esce un profumo diverso, più vero, più assurdo.

Il ronzino magro e poetico che Lucio Corsi incarna sul prato spelacchiato delle Capannelle — simboleggia l’idea stessa dell’arte che non serve a nulla ma a cui serve tutto. È la creatività smilza e ostinata che continua a presentarsi allo start anche quando nessuno ci crede più, quando lo show business è diventato una griglia di partenza per purosangue plastificati o stalloni dopati e addestrati a vincere. Il cavallo Lucio è il simbolo di chi resta laterale, imperfetto, fuori tempo, e proprio per questo indimenticabile. Metaforizza la bellezza che esiste fuori standard, il racconto che non ha morale ma ha visione, la provincia che non chiede di essere riscattata ma ascoltata. È anche, più sottilmente, la metafora di un modo di stare al mondo: camminare invece di correre, raccontare invece di spiegare, immaginare invece di imporre. Un cavallo che non ha bisogno di essere domato perché nessuno ci ha mai provato davvero. E che, con la sua andatura storta e incantata, arriva comunque al traguardo — perché a un certo punto il pubblico, disabituato al miracolo, si accorge che sta succedendo qualcosa. Che non sarà sempre virale, ma è ogni volta vero.

E, se per una sera, il prato dell’Ippodromo delle Capannelle ci è sembrato più verde, è perché in mezzo a tutta la macchina dell’intrattenimento è passato un cavaliere magico con gli stivali sporchi e un microfono in mano, a ricordarci che di certe canzoni, quando le ascolti dal vivo, non conta solo quello che ti danno, ma anche quello che ti tolgono: le paure, i ruoli, la fretta, la competizione. (E ti lasciano lì, svuotato e lucido, come dopo una notte di stelle viste da soli in mezzo a un prato).

Altre notizie su:  Lucio Corsi