«Ma non farà mica solo l’ultimo album, vero?». Ha un’aria molto preoccupata – anche se cerca di dissimularlo – il nostro vicino di posto in un Forum pieno fino all’ultimo posto (sì: se ve lo state chiedendo, quello di Luchè al Forum milanese è un sold out vero, verissimo: niente teli a chiudere settori e ridurre capienze, niente pioggia di biglietti omaggio a riempire i buchi e gli invenduti). Avendo il suddetto vicino di posto scoperto che noialtri si ha in mano la scaletta intera del concerto prima ancora che il concerto inizi (eh sì, ai giornalisti si danno questi privilegi), è giustamente curioso. E mi riempie di domande: chi c’è, chi non c’è, chi suona, chi non suona.
Aveva peraltro iniziato male, il ragazzo in questione, dandomi del lei, ottenendo un «oh, io la scaletta te la faccio anche vedere, basta che mi dai del tu…». Ma è difficile fargliene una colpa. Visto che sorprendentemente – nonostante Luchè sia un artista ormai di lunghissima carriera, una carriera quasi ventennale – il pubblico che riempie gli spazi del Forum è al 90% giovane, se non addirittura giovanissimo, tipo che se superi i 40 anni (e chi vi scrive li supera) sei automaticamente uno della Digos, o uno che sta accompagnando sua figlia. Non era così per i Dogo, non era così per Marracash, non sarà ovviamente così per Neffa, non sarà così per Fibra: per qualche motivo, a Luchè è capitato in dote di avere un pubblico molto giovane, e molto femminile. Ieri in questa prima data del tour indoor autunnale la cosa è risultata davvero ma davvero evidente.
Ora, se c’è una cosa di cui non si può accusare il rapper napoletano è di fare musica per adolescenti urlanti, di essere uno da boy band dell’hip hop, un malamente urban per sedicenni: zero proprio. Il fatto che lui nel 2025 si ritrovi con un pubblico parecchio adolescente e parecchio adorante e parecchio urlante in modo adolescenziale (quando cioè urli isterico quando riconosci il pezzo, poi però ti spegni via via, perché il tuo lasso d’attenzione e d’intensità è ridotto), è uno dei tanti misteri e delle tante incongruenze che circondano il percorso di Luca Imprudente in arte Luchè.
Già: un percorso atipico il suo. Assolutamente. È diventato grande nella “età di mezzo” dell’hip hop italiano: dopo l’esplosione di Fibra, ma prima della grande svolta del 2016 e della trap, riuscendo in qualche modo ad appartenere ad entrambi gli ecosistemi ma al tempo stesso a nessuno dei due. Il suo percorso è coevo per certi versi a quello dei Dogo e di Marracash, ma rispetto a loro è molto diverso, e non è solo questione di geografia. Che poi ehi, parliamo pure di quella: anche se avrebbe potuto, anche se l’esordio coi Co’Sang è stato iconico in quanto a napoletanitudine di strada, anche se ai tempi di Malammore Luchè è finito con un ruolo a dir poco centrale nella colonna sonora di Gomorra, nell’arco della sua carriera non ha mai giocato troppo la carta della napoletanità. Né la gioca adesso: solo alla fine di questa data milanese di ieri, primo atto della tournée nei palasport post estate (e post tentativi estivi, andati così così, di diventare un “artista da stadio”), ha chiamato a rapporto le persone originarie di Napoli in arena, il grosso del concerto è stato invece un lungo e ripetuto omaggio a Milano, «una città che non mi ha mai abbandonato» ha chiosato almeno un paio di volte con trasparente sincerità, e guardate, in tempi di Brand Napoli onnipresente e molto funzionante è solo l’ennesima dimostrazione che Luchè è tutto tranne che un paraculo.

Luchè ha annunciato nuove date tra marzo e aprile a Messina, Bari e Padova, un nuovo Forum il 2 aprile 2026 e un concerto alla Reggia di Caserta l’11 luglio 2026. Foto: Francesco Prandoni
È un inspiegabile sarcasmo del destino, e anche un po’ l’episodica imponderabilità della musica e delle dinamiche di mercato, che Luchè abbia un pubblico così giovane e così – anagraficamente, come tipologia – da boy band, scusate per questa definizione brusca e cinica. Poi per carità, non è che ci fossero solo ragazzini e ragazzine ieri in venue, ma la quantità di genitori in attesa fuori dal Forum a fine concerto era alta, altissima, e appunto, le persone dai 40 anni in su per quello che abbiamo potuto vedere erano proprio pochine. Peccato. Peccato, sì: perché Luchè meriterebbe, anche più di altri rapper, di avere un pubblico adulto, maturo, esigente, un pubblico meno disposto all’urlo facile e più disposto alla critica approfondita e all’ascolto attento. Se un lato di lui e della sua arte resta ovviamente quella del guappo che si vanta e fa rappusianamente il gradasso, cosa che notoriamente fomenta sempre gli adolescenti di anagrafe e di emotività, ce n’è uno uguale e contrario che racconta invece di consapevolezza, di maturità, di autocritica, di dolorosa e vivida sincerità.
Lui di tutto questo è perfettamente consapevole. Più volte nell’arco della serata ricorda ai presenti che questo vuole essere un «concerto vero, non una cosa da un’oretta scarsa in cui faccio solo le hit» (e infatti, è così: alle parole seguono i fatti), temendo che al pubblico che ha di fronte non sia proprio ben chiara la differenza; più volte lui per primo sottolinea quanto vada prestata attenzione ai momenti più introspettivi dello show e, a dirla tutta, questi momenti più introspettivi e anche dolorosi ha comunque l’intelligenza di non caricarli troppo di retorica spettacolarizzata (ad esempio, la durissima Lettera alla pistola alla mia tempia è in qualche modo depotenziata, venendo messo come brano in playback a palco vuoto durante la pausa pre-gran finale: scelta che di primo acchito ci è sembrata svilente e poco coraggiosa, ma è bastato rifletterci sopra 20 secondi per capire che invece fare il contrario – metterla cioè drammaticamente in primo piano – sarebbe stato un eccesso di melodramma e di ostentazione del dolore, banalizzando così il messaggio: bravo, Luchè).
E insomma: il «ma non farà mica solo l’ultimo album, vero?» iniziale del nostro entusiasta vicino di posto era sintomatico e importante, era giusto piazzarlo all’inizio di questo report, perché rappresenta la paura – in buona fede – di chi temeva ieri sera di non sentire le hit che tanto aspettava e che tanto amava, per il desiderio dell’artista di fare un percorso ragionato, ponderato, non scontato. I fan di Luchè avvertono che il loro beniamino vuole portarli altrove, vuole farli crescere, maturare: gli danno fiducia, lo seguono, ma al tempo stesso gli chiedono di non esagerare. Di Luchè evidentemente molto del suo pubblico si è innamorato perché è un malandrino ma è romantico, è guappo ma in fondo è cavalleresco, fa il duro ma sa lasciarsi andare, è sfrontato ma al tempo stesso è quello che vuole parlare con te e, con parole semplici, attraversare il mondo delle emozioni più basilari, più intense, più sincere. Questo è. Al pubblico, Luchè piace così.
A un certo punto nei nostri appunti di metà concerto ci è capitato di scrivere: «Luchè è il Ligabue della generazione urban contemporanea adolescente e post adolescente». La capacità di parlare al cuore dei ragazzi e delle ragazze normali in modo diretto e semplice è quello che lo ha reso così popolare, il fatto che lo faccia con candore – così come con candore non rinuncia ai gangsterismi, combinando le due cose – è ciò che lo rende ancora parzialmente snobbato dal pubblico di chi ha dai 30 anni in su. In questo Fibra, Marra e Dogo sono molto più smaliziati, loro hanno la chiave per essere intergenerazionali e la usano con astuzia, è nelle loro attitudini. Calibrano il fare brutto e l’ironia al millimetro. Luchè non ha nel suo arco espressivo queste strategie. No. Non le ha. Ma non è un limite: è semplicemente una caratteristica. È, per molti versi, addirittura una delle sue forze.

Luchè con Rose Villain a Milano. Foto: Francesco Prandoni
Perché per il resto Luchè ha la voce giusta («It’s mostly tha voice» rappava Guru a metà anni ’90 parlando di rapper in un disco dei Gang Starr, e aveva maledettamente ragione), ha carisma da vendere, regge bene due ore di concerto, e anche se non ha magari il talento tecnico sconfinato di un Jake o di un Salmo, perché qualche imprecisione nel flow gli sfugge, ha la dote più importante: risulta sempre credibile, sempre sul pezzo, sempre intenso. La band che lo accompagna sul palco è una presenza discreta ma appropriata, i visual sono un po’ didascalici ma, a compensare, le luci sono studiate davvero bene, così come la spazialità del palco nel contesto di un palasport grande come il Forum è assolutamente azzeccata. Il risultato è che due ore di concerto passano in un amen, e si sta gran bene anche senza il catalogo Postalmarket degli ospiti, quello che pare sia diventato un obbligo morale nelle date milanesi dei rapper: appaiono sul palco solo Rose Villain, Paky e Nerissima Serpe, oltre al sodale di sempre CoCo (che aveva pure in dote il warm up dello show: poteva giocarselo meglio), e francamente si è stati benissimo così, non si è sentita la mancanza di altro. Anzi: potevano anche non esserci, gli ospiti, che il concerto sarebbe stato bello e incisivo lo stesso.
Per qualche motivo, Luchè piace solo fino a un certo punto alla gente che piace (vedi anche l’assenza della vipperia e delle compagnie di giro solite che appaiono nelle date-cardine dei rapper a Milano: ieri, nada). Lungi dall’essere un limite e una debolezza, questa potrebbe essere la sua forza, un antidoto al saliscendi degli hype e delle mode. E se lui continua con coraggio il suo percorso di crescita e consapevolezza, può durare nel tempo – cosa gli auguriamo convintamente. Anche perché in lui traspare sincerità, non calcolo. Cosa che faremmo fatica a dire per altri (t)rapper che un giorno sono Jovanotti 2.0, un giorno spacciano nel blocco, un giorno sfilano tutti acchitati per gli stilisti il giorno dopo fanno brutto con le pistole, sempre fingendo di non ricordarsi cosa facevano il giorno prima. Luchè, invece, non (vi) nasconde nulla, non si vergogna delle proprie debolezze e delle proprie contraddizioni, ma in cambio lavora coscienzioso per offrirvi uno show dal vivo fatto a modo. Beh, bene così.













