Lo sbruffone e gli introversi: Liam Gallagher e i Black Keys agli I-Days | Rolling Stone Italia
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Lo sbruffone e gli introversi: Liam Gallagher e i Black Keys agli I-Days

La strana accoppiata all’Ippodromo: uno spaccone inglese all’ennesima potenza con classici (degli Oasis) e pezzi minori (i suoi) e una coppia di americani impegnati nell’umile missione di non far dimenticare il padri del blues. In entrambi i casi, vince la nostalgia

Lo sbruffone e gli introversi: Liam Gallagher e i Black Keys agli I-Days

Liam Gallagher agli I-Days di Milano

Foto: Sergione Infuso/Corbis via Getty Images

È da un po’ di tempo che penso che Liam Gallagher, la magnetica voce degli Oasis, rock’n’roll star degli anni ’90 e icona di un brit pop da birra al pub, cori da stadio (possibilmente a una partita del Manchester City) e attitude da spaccone sia ormai fuori tempo massimo. Troppo preso dai continui bisticci con il fratello Noel e dal tentativo di essere sempre e ancora supersonic con pezzi che ricordano gli Oasis abbastanza da non perdere i fan della storica formazione britannica ma non così tanto da esserne una stucchevole imitazione, Liam sta invecchiando nella sua arroganza.

Anche se continua a mangiarsi il palco – Gallagher resta un grande performer e lo ha dimostrato anche ieri sera agli I-Days all’Ippodromo La Maura di Milano – il cantante britannico sta iniziando, nel suo ritenersi un celestiale profeta spirituale (parole sue, andate sul suo profilo Twitter), a parlare sempre più a se stesso e non a chi gli sta intorno. Un conto è farlo dopo la pubblicazione di album come Definitely Maybe o (What’s the Story) Morning Glory?, un altro è farlo dopo C’mon You Know, la terza prova discografica solista dell’ex Oasis uscita lo scorso anno.

A Gallagher il pubblico non manca. Certo, quando partono Stand by Me o Champagne Supernova, la classica chiusura, ci si emoziona tutti. Ma la sensazione è sempre quella di un tuffo nel passato, che porta comunque una certa euforia dopo quelli che non credo dovremmo aver paura di definire brani minori, da Why Me? Why not. a More Power, per citarne un paio. Quando vengono suonati durante il live il pubblico non canta una parola, mette in tasca i telefoni, chiacchiera con i vicini, per poi esplodere non appena la band che accompagna Rkid torna a proporre i brani degli Oasis.

Il cantante mancuniano sembra quasi scocciato dal fatto che al pubblico interessino solo i pezzi della band di Don’t Look Back in Anger ma incassa, scherzando con il pubblico sul fatto che di fan degli Oasis ce ne siano parecchi. Anche la scelta degli effetti degli schermi sul palco rimarca il sapore vintage della performance. Tra le maglie del Manchester che sbucano tra la gente parte anche qualche fumogeno rosso, come era avvenuto anche la sera precedente durante il live di Travis Scott.

Con tamburello e maracas alla mano e posa a mento in su per raggiungere un microfono volutamente altissimo, come di consueto, Liam Gallagher fa il suo senza nessuna differenza rilevante rispetto ai precedenti live solisti oltre alle canzoni del nuovo album – la scelta è ricaduta su Better Days, More Power e Diamond in the Dark – proposte per la prima volta dal vivo dalle nostre parti. La voce è un filo più roca ma sempre pulita e dal timbro inconfondibile. Se, come dice qualcuno, ciò che conta sono le idee in questo set e nella carriera solista dell’artista non ce ne sono moltissime.

La formula di ieri sera che all’artista britannico ha accostato i Black Keys, che pur avendo suonato prima di Gallagher non erano propriamente opening act, arricchisce l’esperienza (prima di loro si sono esibiti i Nothing but Thieves, ndr). Se vi eravate dimenticati di loro, vi aggiorno: dopo un paio di album più scarichi dei precedenti e una pausa di riflessione – e di progetti solisti – di cinque anni, nel 2019 Dan Auerbach e Patrick Carney sono tornati in forze con nuove produzioni di cui l’ultima, Dropout Boogie, del 2022.

Foto: Alessandro Cimma

Sui palchi italiani mancavano da una decina d’anni e se Liam Gallagher si è autodefinito ironicamente «la mano di Dio», il duo dell’Ohio si colloca all’estremo opposto dello spettro dell’autostima, schivi al punto da considerarsi niente di più di due figli del blues impegnati a non far dimenticare il suono dei musicisti che ne hanno forgiato le sorti. Se prendi l’egocentrismo, lo metti da parte e a quello che resta dai il suono di Big Joe Williams, hai i Black Keys.

“I’m still thankful for the blues”, un passaggio di Leave the City della band di Jason Molina, potrebbe essere il mantra dei Black Keys. È la loro forza perché è davvero difficile che il blues non si faccia rispettare, ma i due hanno anche avuto la capacità di dargli una veste estremamente moderna con risultati alterni che vanno da album incredibili come Brothers ad album meno riusciti come, ne cito uno, Turn Blue. Il sound della band, che intrattiene il pubblico nelle prime ore della sera, è quindi un mix di suoni viscerali e “diavoli blu” alternati a momenti di leggerezza, a volte anche fin troppa per chi ama le dodici battute.

Come quando non si vede una persona da parecchio tempo nel ritrovarsi faccia a faccia con i Black Keys gli anni trascorsi si sentono, dalla pancia di mezza età di Carney dietro alla batteria allo sguardo più affaticato di Auerbach. Nel 2012 all’Alcatraz avevano segato le gambe al pubblico e ieri la performance non è stata da meno. Anche se Auerbach e Carney sono talmente introversi e poco interessati ai riflettori che più che ad assistere a un evento in una grande arena estiva sembra di essere in un pub di Akron a bere qualcosa con dei vecchi amici con cui si erano persi i contatti.

Quando ci si ritrova davanti a una pinta dopo tanto tempo un po’ di malinconia affiora sempre e pure in questo caso non manca. Anche nei brani più energici come Lo/Hi, Tighten Up o Lonely Boy una punta di sofferenza nella voce di Auerbach e nelle sue chitarre c’è sempre. Quest’anima del resto i due l’hanno sempre avuta: l’adrenalina non esplode mai del tutto perché non è questa la missione del blues, che è più un lamento, una tristezza profonda, una preghiera. Nella sua essenzialità, questa musica disdegna ogni orpello, ogni ricciolo, e offre semplicemente a chi è di passaggio un rifugio accogliente arrangiato alla bell’e meglio. Non c’è molto, ma ci sono le note calde del blues, qualche fiocco di cotone nell’aria e una bella vista sul Mississippi che scorre inesorabile.

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