Fin da ragazzino ho sempre ammirato la scelta di quei quattro norreni dei Led Zeppelin all’indomani della scomparsa di John Bonham. È stato bello, chiudiamo qui. La musica è finita, gli amici se ne vanno. Quando nel 2017 il 41enne Chester Bennington ha posto drammaticamente fine alla sua esistenza nella sua casa di Palos Verdes Estates è quello che devono aver pensato milioni di fan dei Linkin Park. Come era possibile dopo tutto sostituire un elemento della formazione indispensabile, quello più caratterizzante, l’unico capace di passare indifferentemente da melliflue armonie vocali a urla partorite dall’inferno?
All’indomani della tragedia, che investe fan, famiglie, membri sopravvissuti e tutta l’industria musicale (due mesi dopo un altro scioccante suicidio, quello dell’amico fraterno Chris Cornell) nessuno pensa a un futuro per la band e le dichiarazioni di Mike Shinoda di «voler continuare come Linkin Park, anche se ci vorrà del tempo per metabolizzare tutto questo» vengono accolte con lo stesso superficiale scetticismo paterno di quando tuo figlio di 5 anni ti dice che vuole fare l’astronauta. Certo Mike, certo. Ora però vai a letto, sarai stanco.
Beh, il tempo Shinoda se l’è preso e nel ruolo di co-frontman, intelligentemente, il rapper, produttore e polistrumentista ha scelto una frontwoman, Emily Armstrong, cantante semisconosciuta ma dalle impressionanti doti vocali che ovviamente inizialmente sta sulle palle a mezzo mondo. Come osa questa qui rimpiazzare Chester? Perché a ’sto punto non cambiare il nome della band? È il disco rotto che suona nei commenti a ogni video, ogni post diffuso dalla nuova incarnazione dei Linkin Park. Ma l’iniziale scetticismo si ridimensiona presto: il disco debutta direttamente nella top ten di parecchi Paesi e la band sembra coesa e tonica. Non resta che vederla dal vivo.

Foto: Giuseppe Craca
L’Ippodromo La Maura è gremito. È la prima volta in otto anni che la band si esibisce in Italia (l’ultima volta era nel 2017, agli I-Days di Monza) e l’attesa è febbrile, come attestato dai 78 mila biglietti andati esauriti in 72 ore. L’aria diventa elettrica come diceva Roby Facchinetti, chi fermerà la musica? Molto probabilmente il caldo, simile a quello della giungla del Sarawak in agosto o forse la tragica dispersione del suono, una caratteristica acustica dell’ippodromo che mi ricorda l’ascolto di una radio FM attraverso il cubo Brionvega di mia nonna sul fondo di una piscina vuota.
I Linkin Park iniziano puntuali come svizzeri (davanti ai quali però qualche giorno fa non hanno suonato adducendo qualche problema fisico) alle 21, aprendo le danze con l’artiglieria pesante: Somewhere I Belong, in cui Emily sembra un po’ in affanno ma forse ha solo bisogno di riscaldarsi. Crawling, Cut the Bridge e Lying From You sono un crescendo che culmina in The Emptiness Machine, il pezzo forte del disco nuovo. Armstrong ha adesso una voce potente e l’interplay con Shinoda è onestamente perfetto, senza sbavature.
Lo spettacolo è ambizioso, diviso in cinque atti, ciascuno con atmosfere e visuals a tema. Dopo “Intro” è il momento di “Creation” che inzia con the The Catalyst. Il pubblico canta a squarciagola, Emily e Mike corrono a destra e a sinistra del palco e sembrano rilassati, felici di essere tornati a fare quello che amano: pop-metal di facile presa con ritornelli killer davanti a folle oceaniche. Mi stupisce l’età media dei partecipanti che mi pare francamente bassa. Forse sono io che mi vedo esteticamente simile al tardo Allen Ginsberg ma intorno a me ci sono solo facce giovani. Riconosco e saluto Marco Maccarini, che sembra mio figlio ma ha 49 anni, poi lì vicino becco Simone Panetti e Diego Naska, che sembrano anche loro miei figli ma stavolta è perché potrebbero effettivamente esserlo. «Ho incora impressi nella testa i combattimenti di Dragon Ball rimontati su YouTube con la musica dei Linkin Park», mi dice Panetti, facendomi istantaneamente sentire il vecchio di merda che sono.
Ci troviamo tutti qui per partecipare a questo grande rito collettivo, la rinascita della fenice, possibilmente scroccando da bere. La band è uno schiacciasassi millimetrico, i brani si susseguono con precisione chirurgica: finito il trittico di Lost, Stained e What I’ve Done che costituiscono il terzo atto “Collapse” è il momento del piatto forte: “Kintsugi”, il quarto atto nonché nota pratica giapponese (omaggio alle radici nipponiche di Shinoda) del restauro della ceramica che consiste nell’utilizzare lacca e oro, senza cercare di nascondere le riparazioni ma piuttosto evidenziandole e rendendole parte dell’estetica dell’oggetto, che diventa quindi unico. Una metafora evidente di quello che Mike ha fatto con la band. Impressionano le sue doti canore, sempre in ombra durante l’era Bennington e ora perfetto complemento alla potenza di Emily, che sembra parte integrante del gruppo da sempre. I LP non hanno avuto bisogno di fare come i Queen che per non fare incazzare la fan base sono andati in tour con il +1 (Adam Lambert) manco fossero una lista accrediti.

Foto: Giuseppe Craca
È indubbiamente uno show impaginato con grande professionismo, ma se proprio devo fare un appunto è la massiccia presenza di elettronica e programming a lasciarmi un po’ freddo, anche se è sempre stato un ingrediente portante del gruppo. Manca quell’incertezza, quel feedback di troppo a rendere quest’esperienza più umana, a certificare che a suonare non sono robot, ma esseri umani in grado di selezionare tutti i riquadri coi semafori nei captcha. E tutto questo nonostante l’entusiasmo contagioso di Shinoda che interloquisce coi fan, raggiunge le prime file e regala a una spettatrice in evidente stato di shock il suo cappellino. È un po’ come i noodles liofilizzati istantanei, quelli in cui devi solo aggiungere acqua calda che sono pronti: dopo un appagamento iniziale hai voglia di qualcosa di più naturale, meno processato.
Ho appena fatto in tempo a formulare questo ardito parallelismo gastronomico che il gruppo fa saltare il banco. Numb innesca l’ippodromo, In the End lo accende, con il dj Joe Hahn che traffica con un armamentario di macchinari più ampio di quello del Cern di Ginevra. Infine Faint (il mio pezzo preferito in larga parte per via di quel sample iniziale, l’inizio di Tania Meets Klebb dal film Dalla Russia con amore di James Bond ma suonato al contrario) che inizia col drumming assassino del nuovo batterista nonché sosia di Fabrizio Colica fa saltare i 78 mila presenti.
Quasi due ore di live in cui non c’è più di tanto la voglia di capitalizzare sul passato ma di guardare al futuro. Non essendo un hardcore fan non mi sono commosso (se non a metà set per la scoperta della morte di Alvaro Vitali), ma non ci vuole un comportamentista della Boston University per capire che gli amanti dei Linkin Park questa sera hanno assistito a qualcosa di speciale.

Foto: Giuseppe Craca
Dopotutto che fosse un evento fuori dal comune lo si era capito il giorno prima, quando una nota pizzeria di Milano in Porta Venezia, Da Zero (pensa a volte il caso), si è trasformata per un giorno in Linkin Pizza, locale pop-up interamente dedicato al gruppo. Appena arrivo c’è già una coda chilometrica. Dentro le temperature sono simili a quelle della superficie del sole e sono abbastanza certo che le pizze si cuociano anche stando sul pianale, il pizzaiolo le inforna solo per fare scena. Il menù è tematico: c’è la classica margherita In the End, la rossa Numb (marinara), Up From the Bottom (pomodorini gialli semi dry, salsiccia incontro, ‘nduja, mozzarella di bufala e cipolla caramellata) e The Emptiness Machine (crema di melanzane, crema di pomodoro arrosto, provola, melanzane fritte e chips di parmigiano).
Ho preso quest’ultima, che ha il titolo del singolone dell’ultimo album, per dare un segnale forte: la mia fiducia nel futuro, in questa nuova incarnazione della band. Ho addentato una fetta e il perfetto bilanciamento dei sapori e delle consistenze, la cremosità delle verdure che fa da contraltare alla croccantezza delle chips di parmigiano e l’impasto semi-integrale che promette digeribilità in cinque giorni lavorativi mi avevano già fatto stare simpatici i Linkin Park 2.0. Mentre addento il mio companatico, un crocchè cilentano (patate, salame essiccato, provola, sale, pepe, uova, parmigiano, panatura) che mi garantirà un coma cardiovascolare sino all’inizio del concerto il giorno dopo, si presenta a sorpresa nel locale la band. Mi compiaccio nel vedere che anche Shinoda e Armstrong ordinano la mia pizza e una marinara e penso che alla fine hanno capito tutto: per conquistare noi italiani non servono bandiere della Palestina, effetti speciali o tette di fuori, basta che ci date da magnà.