Liberato canta, Roma risponde | Rolling Stone Italia
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Liberato canta, Roma risponde

Quello di ieri al Rock In Roma è stato forse il più grande successo di Liberato: offrire una dimensione live con uno spessore e una ricchezza all’altezza del resto di un progetto così ambizioso

Liberato canta, Roma risponde

Tutte le foto di Giuseppe Maffia

Il problema dei fenomeni culturali alimentati da un grande marketing, è che quando devono poi diventare reali, scoprendo le carte su quanto avevano promesso, è quasi impossibile essere all’altezza delle aspettative. Forse è anche per questo motivo che Liberato ha centellinato le sue esibizioni dal vivo in questi anni, proteggendo il mistero del suo anonimato e tenendo viva la fiamma dell’hype il più possibile.

La prima volta che doveva esibirsi dal vivo, al MI AMI del 2017, è arrivato al paradosso di mandare sul palco al suo posto direttamente altri artisti: Calcutta, Izi, DJ Shablo. Pochi mesi dopo ha tenuto un concerto al Club to Club a Torino molto elettronico e il 9 maggio del 2018 si è presentato alla Rotonda Diaz, a Napoli, per un concerto a sorpresa: incappucciato, a bordo di un gommone, in perfetta continuità con l’universo filmico costruito da Francesco Lettieri. Esattamente un mese dopo, con la ricorrenza di date tipica delle religioni e delle grandi operazioni commerciali, si è esibito a Milano, in un concerto che era un assaggio della autentica dimensione live di Liberato.

Per Liberato c’è sempre stato qualcosa da aspettare. Il nuovo singolo, l’album, il nuovo episodio video della saga “Capri rendez-vous”, qualche indizio sulla sua identità, il 9 maggio come ricorrenza sacra da celebrare con un pezzo in più del suo universo dato in pasto ai fan.

Con l’uscita dell’album – ovviamente il 9 maggio, a due anni esatti dal suo primo, iconico singolo – l’universo di Liberato è arrivato a una sua compiutezza, che questo tour deve in qualche modo consacrare. Per farlo ha deciso di circondarsi di artisti stranieri come il brasiliano MC Bin Laden, il cui video Ta Tranquilo Ta Favorável su YouTube ha 101 milioni di visualizzazioni (contro i 17 milioni di Nove maggio) e i peruviani Dengue Dengue Dengue; oppure italiani ma dal forte respiro internazionale, come Tiger&Woods, K-Conjog e Bawrut. Come a voler dire che il progetto Liberato, pur nascendo con una forte identità locale, cerca soprattutto di dialogare nel tessuto della scena globale. Insomma, Liberato si giocava molto in questo concerto, che ha deciso di tenere nello scenario lunare dell’Ippodromo della Capannelle, un palco freddo e dispersivo.

Era interessante capire se sarebbe riuscito a scaldare un palco così complicato in uno dei suoi primi live, con appena album alle spalle. C’era poi la questione eterna di Liberato, ovvero come avrebbe risolto la questione della sua presenza stavolta.

Una delle forze di Liberato è stata finora soprattutto quella di aver costruito un’estetica e un’immaginario fortissimi in assenza di uno degli strumenti più potenti per un artista pop: il corpo del cantante. La sua assenza continua ad emanare qualcosa di religioso, ed è per questo che il live per Liberato si carica di ulteriori significati: è il momento del ricongiungimento tra la dimensione fisica negata del cantante e quella dell’esercito di adepti costruito in questi anni.

Eppure, quando l’ora d’inizio del concerto è passata ormai da venti minuti, Liberato ancora non si vede. Ci sono 25.000 persone a Capannelle e nell’aria suonano i Daft Punk, che sull’anonimato e la spersonalizzazione dell’artista hanno costruito una filosofia. Poi, intorno alle 22.30, parte il beat grasso, estivo di Guagliò. Il palco, coperto da un enorme schermo LED, trasmette luci rosa, e non è chiaro se il concerto si ridurrà davvero a questo: una specie di spettacolo visivo in cui la fonte del suono rimane invisibile, come per gli acusmatici greci. Anche perché lo schermo rimane al suo posto anche durante il secondo pezzo, mentre lo schermo trasmette una specie di enorme fiamma rosa.

Prima dell’intro caraibica di Oi’ Mari’ lo schermo viene tirato su e vediamo comparire il corpo che abbiamo imparato a riconoscere come quello di Liberato: una silhouette nera, alta, incappucciata, con la bandana annodata a bavaglio. Attorno a lui altre due persone si dedicano soprattutto alle percussioni. Oi’ Mari’ è uno dei pezzi più riusciti dell’album, di certo tra quelli che meglio sintetizza il suono e il romanticismo di Liberato «Oi Marì / Song ‘nu ‘guapp ‘e carton, me crir / Mi princesa, nun fa accussì», sotto a un reggaeton che in Italia è stato usato spesso in maniera goffa. È impressionante vedere tante persone intonare a memoria testi in un dialetto strettissimo che non è il loro. È la sintesi del successo della filosofia glocal del progetto Liberato, che ha saputo coniugare un suono fresco, contemporaneo e internazionale alle atmosfere romantiche più radicate nella canzone napoletana, “Think global, act local”.

La prima parte del concerto è quella che vuole prendere più al cuore, e dopo Oi’ Mari’ gli schermi proiettano una luca e un cielo stellato su cui partono le note di “Stand by me” – citata proprio in Oi’ Mari’ – e poi di Gaiola. Liberato è piegato sulla tastiera, al centro del palco. Tutti i pezzi sono anticipati e caricati da una lunga parte strumentale che dà uno spessore musicale più ricco al live. Man mano che si va avanti nella scaletta le parole si diradano, i pezzi diventano più strumentali e veloci.

Così, dopo l’esecuzione rituale di Nove Maggio, anticipata da un’intro lunghissima, sincopata e ipnotica il concerto assume una dimensione elettronica in parte sorprendente, dove a comandare sono state soprattutto le percussioni. L’ingresso di Me staje appennenn’ amò è mischiato con una traccia ancora dei Daft Punk, e il pezzo poi è ricco, generoso, incredibilmente ballabile. È forse la parte più riuscita del concerto, dove il sound molto “carico” del disco – elettronico, ma a tratti anche reggaeton – gli ha permesso di reggere anche la dimensione di un palco così grande senza mai scendere di intensità. Liberato ha confermato di trovarsi a suo agio nel mettere in piedi uno show in grado di intrattenere e di far ballare: due aspetti rari nella scena musicale italiana, specie per i progetti nati nell’underground di internet e che si sono circondati di una certa aria di esclusività.

Prima di Nunn’a voglio ‘ncuntrà parte addirittura un mash-up di Tamurriata nera mescolata con Bad Girls di M.I.A.. È un momento iconico, che non scade nel kitsch per la coerenza e la credibilità che Liberato è riuscito a dare al suo progetto e ai suoi riferimenti culturali. Come sempre il pubblico è una piscina di telefoni alzati a riprendere, di piccole luci che cercano di schivarsi per non impallarsi la visuale. Liberato aveva pregato «Togliete sti cellulari, stannotte dovete ballare», ma deve in qualche modo accettare il risvolto più naif di un progetto che è cresciuto molto anche grazie alla costruzione dell’hype su internet. La testimonianza di esserci, fisicamente, diventa essenziale.



Il concerto si chiude con il momento karaoke – più classico dei concerti italiani – di Tu t’è scurdat’ ‘e me. Durante il concerto Liberato ha parlato e interagito poco, concentrandosi sulla sua tastiera, o restando fermo al centro del palco a cantare. È stato attento a ridurre tutte le interazioni che potevano tradire un’identità più individuale. Una strategia che può essere vissuta come un sintomo di freddezza, ma che rimane coerente col progetto Liberato che ha preferito nascondere l’individualità soggettiva dell’artista per lasciar parlare la musica, le immagini e tutto l’immaginario e l’universo estetico di cui il cantante è solo un fragile medium.

Quello di ieri sera è stato forse il più grande successo di Liberato: offrire una dimensione live con uno spessore e una ricchezza all’altezza del resto di un progetto così ambizioso. Era forse la cosa più difficile, di sicuro la meno scontata.

Scaletta

“Guagliò”
“Tu me faje ascì pazz”
“Stand by me”
“Oi’ Mari’”
“Gaiola”
“Intostreet”
“Je te voglio bene assaje”
“Niente”
“Nove maggio”
“Me staje appennenn’ amò”
“Tamurriata nera”
“Nunn’a voglio ‘ncuntrà”
“Tu t’e scurdat’ ‘e me”

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