Tra le fila del pubblico delle grandi occasioni, convenuto ieri sera al RomaEuropa Festival per l’unica data italiana del nuovo tour X2 di Laurie Anderson, soffiava un vento insolito. Non quella brezza, così tipica degli eventi artistici attuali romani, che sospinge i superstiti della cultura come tra i padiglioni di un salone nautico, con le hostess in gran tiro e i tender dai motori fuoribordo lucidi come padelle antiaderenti; divisi tra la meraviglia per qualcosa di inafferrabile e il rosicamento per non poterselo permettere. Piuttosto si trattava di un ponentino quasi fuori tempo massimo che, tuttavia, scartando i mega yacht e gli effetti speciali, ci incalzava verso una vecchia Herreshoff 12½, mezza scrostata, con ancora l’odore di vernice al piombo e panini al burro d’arachidi mangiati in banchina al circolo della vela di City Island nel Bronx; e ci rivelava che quell’incauto natante era uno dei prodotti migliori dell’unico cantiere in grado di salvarci dall’affondamento imminente, anche a secco, anche nel bel mezzo di un Auditorium, soprattutto nel bel mezzo di un Parco della Musica: appunto, l’arte.
Il pubblico di Laurie, in fondo, oggi è un naufrago della contemporaneità. Non per nostalgia, ma per la perdita di ogni orientamento stabile. Le rotte culturali si sono spezzate, i venti girano a vuoto, i fari lampeggiano a casaccio. Laurie Anderson traccia per noi una nuova mappa, fatta di coordinate imprecise ma affidabili, dove ogni brano è una boa, ogni pausa un abisso scampato, ogni citazione un salvagente.
Laurie appare al centro del palco della sala intitolata a Santa Cecilia con in mano un violino speciale. Ci racconta perché in italiano (che alternerà all’inglese per tutti i monologhi della performance). Ha avuto un problema alla spalla, e si è ritrovata, settantottenne, nello studio di un medico dello sport, la sala d’attesa affollata da enormi cestisti con le ginocchia a pezzi e tennisti in ipervascolarizzazione con i polsi fasciati. Quando le hanno chiesto cosa ci facesse lì, ha risposto semplicemente: «Violino». E loro, dopo un attimo di silenzio: «Allora devi tornare». Così, eccola. Ha una pronuncia della nostra lingua teneramente dissonante: precisa ma fuori contesto, come uno strumento accordato nel mezzo di una tempesta. Quando dice cose come: «Mi hanno invitata ad un festival in Austria dove mi hanno chiesto di spiegare il rapporto tra governo e amore», sembra di sentire una voce fuori campo arrivata da una dimensione parallela, gentile e inquietante insieme, per metà psicanalista fuori campo in un film di Fellini e metà voce amica che sa sempre come metterci sempre il dito nel timpano.
Laurie Anderson dà il via alla scaletta con What Is Love?, e la domanda resta sospesa su tutto il resto della serata, senza risposta ma continuamente incarnata: nelle immagini generate dall’IA del nonno Axel che mente allegramente sulla tragedia della sua infanzia in riformatorio, raffigurandosi allevatore di cavalli a 9 anni e sposo a 10; nello zio tornato dalla guerra con DPTS che fuma in continuazione, dalla soffitta, tutto il suo rancore verso i francesi.
Con Big Science si capisce ancora meglio la traiettoria: Laurie non sta suonando, sta costruendo condizioni di ascolto. La sua voce si appoggia a una struttura che sembra elettronica ma è interiore, come uno scafo basso che tiene l’acqua anche con la bassa marea. E quando racconta di sentire un battito dentro di sé, lo rende visibile e udibile: colpisce i microfoni, cerca di fermare il ritmo ma lo amplifica. Il percussionista Kenny Wallesen della Sexmob la accompagna come si accompagna una vela che sbatte, cercando come può il bordo giusto.
Più avanti arriva Language Is a Virus, il mantra di Burroughs. Laurie lo canta come un proverbio tossico: il linguaggio ci infetta, ci replica, ci modifica. Mostra sullo schermo la lista delle parole recentemente proibite nei documenti ufficiali americani: parole come “feto”, “transgender”, “evidence-based”. «Se non puoi più usare una parola», dice Laurie, «finirai col dimenticarla. E poi sparirà». Allora proietta una pioggia di lettere singole, poi a coppie, poi a terzetti: lettere genetiche, codici che cadono dal cielo e sembrano riformare il mondo.
Per A Hard Rain’s A-Gonna Fall Laurie canta Dylan senza interpretarlo: lo lascia accadere come un fenomeno atmosferico. La pioggia che cadrà è quella che ci ha già bagnati tutti, anche se nessuno ha sentito il temporale arrivare.
Noncurante di ciò, Laurie ha perfino il tempo di raccontare una barzelletta, a modo suo. «Uno scheletro entra in un bar e dice: dammi una birra e una scopa». Il pubblico ride. Ma è una trappola. Lo scheletro è l’umano che resta, la birra è il desiderio. La scopa — o il mocio, se vogliamo, più adatto all’umido — è la responsabilità del vivere. Ogni piacere ha un dopo da pulire.
Questo spettacolo è, in termini leopardiani, lo Zibaldone di Laurie Anderson; oppure, in termini da liceale nostalgico, la sua Smemoranda. È il tipo di linguaggio che non serve a informare, ma a ricordare che c’è qualcosa da cercare: come una carta nautica disegnata per chi ha già perso la bussola, ma non ha smesso di navigare. Appunti sparsi su cosa voglia dire esistere nel tempo dei dati incerti, dei virus linguistici, delle parole che scompaiono. Un insieme di frammenti non ordinati, di pensieri non finiti, di ricordi non certificati, che convivono sulla stessa superficie come le annotazioni a margine di un quaderno che ha smesso da tempo di fingere una gerarchia dei contenuti.
Lo Zibaldone, per Leopardi, era la fucina filosofica dove prendeva appunti per pensare: Laurie fa lo stesso, ma con i suoni, con le immagini, con le parole vietate e i genitori scomparsi, live. Scrive nel codice della performance ciò che non potrebbe mai essere detto in una conferenza. Mette in ordine le sue dissonanze come una bambina mette in ordine le conchiglie trovate sulla riva: non per tipologia, ma per eco. E come una Smemoranda scolastica, questo spettacolo è anche un contenitore di icone personali, di lettere mai spedite, di foto appiccicate con lo scotch al proiettore, di frasi ritagliate da riviste d’altri tempi. Ci sono i miti scomparsi sulle pagine ingiallite delle agende adolescenziali: non come tragedia, ma come compresenza affettuosa e non risolta. Da John Cage a Borges sono tanti gli spettri vivissimi della serata, che fanno capolino come appaiono i fantasmi nella migliore letteratura: non gridano, ma fanno compagnia.
Laurie porta in scena la sua cartella di appunti, e non si preoccupa che le pagine siano stropicciate, che manchi un indice, che il senso arrivi solo ogni tanto, e sempre da un lato. Il suo zibaldone non cerca verità, ma orientamento. La sua smemoranda non vuole contenere la vita, ma solo ricordarci che scrivere — e suonare, e proiettare — è già un modo per stare in mezzo al mare senza soccombergli del tutto.
Scenderà ancora il silenzio e Laurie riprenderà il suo violino tagliato a metà. Dietro di lei non può mancare il volto immenso di Lou. “When my father died, we put him in the ground. When my father died, it was like a whole library had burned down” (Quando mio padre è morto, lo abbiamo seppellito. Quando mio padre è molto è stato come se un’intera libreria fosse bruciata). Ora il violino di Laurie è di fatto ad aria, lo suona senza più corde, senza più mani, senza più tempo.
Laurie e la band escono di scena e ritornano per un bis, introdotto da una virata bilingue: «Nonostante tutto, non dimenticatevi mai che il motivo per cui siamo qui è per avere un really really really good time». E prima di lasciarci andare, ci conduce in una lezione di Tai Chi. Movimenti lenti, condivisione di un ritmo che non si comanda. Ancora un omaggio a Lou Reed, che ne era maestro. Il pubblico partecipa, meglio che può, un po’ strettine tra le poltrone, come un equipaggio improvvisato che cerca in tutti i modi di non ammutinarsi involontariamente per una storta o un pensiero di troppo.












