Mama’s Gun è stato il secondo album in studio di Erykah Badu, pubblicato il 18 novembre di esattamente 25 anni fa. Venticinque anni in cui viene da domandarsi: com’è cambiata la musica soul? Chi sono state le punte di diamante di questo primo quarto di XXI secolo, se il benchmark è una gigante come la cantante di Dallas?
Mama’s Gun, registrato agli Electric Lady Studios di New York City insieme al super collettivo Soulquarians composto da Questlove alla batteria, Pino Palladino al basso, James Poyser al piano, Roy Hargrove ai fiati e dal produttore Jay Dee, è stato un disco fondativo non solo per la carriera della Badu, ma della musica neo soul tutta: c’era la potenza degli strumenti suonati live da una formazione d’eccellenza, la capacità di scrivere di temi come l’amore, l’autostima e la giustizia sociale con un’intensità intimista ed esplosiva insieme, ma soprattutto c’era la voce potente di un’artista che cantava dalle viscere.

Foto: Elena Di Vincenzo
Scritto dopo la separazione da Andre 3000 e a ridosso della nascita di loro figlio, in un periodo in cui l’artista si è trovata ad affrontare i sentimenti che cambiano e le incombenze della maternità, la Badu aveva fatto di questo disco la sua personale terapia. L’ha dato al mondo come cura, non solo come musica.
Nel tour che porta in giro oggi attacca con Penitentiary Philosophy, il pezzo che apriva originariamente il disco. Erykah sale sul palco mentre la sua band sta jammando e, più che apparire, è una vera e propria manifestazione: vestita con i suoi abiti stratificati e voluminosi, il cappello alto che la fa sembrare una papessa del soul, il viso da Nefertiti, ti porta con lei in una dimensione parallela, a metà tra il Blue Note e una polverosa strada americana.
Il look teatrale e iconico alza subito l’asticella dello show: inquadrata da due fasci di luce triangolari che sembrano il portale d’accesso al suo mondo e visual che alternano grosse parole fluo in caps lock a illustrazioni in stile fumetto, il concerto prosegue con i classici Didn’t Cha Know, … & On, Cleva, It’s Gonna Be Alright. Erykah è una maestra nell’alternare momenti di narrazione introspettiva, confronto e celebrazione a parentesi di energia ritmica in cui la voce e la band si fondono con una potenza cristallina.

Foto: Elena Di Vincenzo
A metà concerto, la musica si abbassa, l’artista si siede e si prende degli interi momenti di dialogo col pubblico. Lei, la chitarra sulle ginocchia e una platea di sconosciuti che da lei ascolterebbe anche la lista della spesa. Invece ci delizia con Black Box, A.D. 2000, In Love With You: la sua potenza vocale non è invecchiata di un anno. La Badu ha la grazia naturale degli oratori nati, una capacità di connettersi con gli altri che trascende ogni lingua e geografia. Un po’ santifica e un po’ sussurra.
I momenti più soul sfociano in danze tribali afrofuturistiche, ritmiche reggae, pianoforti jazz: è una celebrazione della musica black che ci ricorda il contesto di picco creativo in cui Mama’s Gun è uscito. Erano gli anni di The Miseducation of Lauryn Hill, On How Life Is di Macy Gray e di Voodoo di D’Angelo, che rimangono ad oggi i riferimenti assoluti dell’R&B.

Foto: Elena Di Vincenzo
La scaletta volge verso la fine, sul palco sorge una luna arancione che sembra un’alba extraterrestre a ricordarci che forse Badu non è di questo pianeta. Un frinire di uccelli come fosse mattina. Mentre assisto a tanta meraviglia penso principalmente a due cose: che un’artista come Erykah meriterebbe di riempire gli stadi, le università, le piazze più grandi del mondo mentre ci insegna cos’è la musica, mentre in Italia è rimasta un’artista di nicchia da piccola location; e che il pubblico in sala non se la merita, visto il chiacchiericcio costante e rumoroso che ha coperto tutto il concerto, almeno nelle file laterali dell’Alcatraz.
C’è di buono che tra il pubblico si nota un bel mix di età. Non solo quarantenni fan del disco, ma tanti ragazzi nei loro vent’anni che ne hanno colto l’iconicità e il valore storico ogni oltre algoritmo (e che fanno anche meno rumore).
Bag Lady, Time’s a Wastin, Green Eyes. La rivisitazione di Mama’s Gun portata in questo tour non cede mai a facili nostalgie né cerca a tutti i costi effetti speciali. Gli arrangiamenti rispettano l’anima originaria dei brani ma si accendono con variazioni contemporanee, i ritmi vengono dosati dalla band senza strafare e Badu ci fa sentire per un’ora e mezza ad Harlem, a Dallas, a New Orleans, in qualsiasi angolo d’America il nostro immaginario voglia andare.








